Sul massacro di Simonjovel

La Jornada – Sabato23 marzo 2013

 

Il Massacro di Simojovel

Cronaca di un massacro di poliziotti (quasi) dimenticato

Hermann Bellinghausen. Inviato. San Cristóbal de las Casas, Chis. 22 marzo. La notorietà raggiunta dalla lotta di Alberto Patishtán Gómez per la libertà ha impedito che il crimine che ha causato la sua personale disgrazia di 12 anni di prigione (e, secondo la sentenza ne mancano altri 48) fosse dimenticato, cosa che sicuramente ha contrariato molte autorità, almeno statali, dal 2000 ad oggi, dopo quattro governatori letteralmente di tutti i partiti. Che cosa successe la mattina del 12 giugno del 2000 a Las Lagunas de Las Limas, Simojovel? Quale il movente? Che cosa stava succedendo in quei giorni da quelle parti?

L’omicidio di sette poliziotti – il comandante Francisco Pérez Morales, cinque agenti ai suoi ordini ed il comandante municipale di El Bosque, Alejandro Pérez Cruz – rappresentava un fatto di enorme gravità. Oggi forse ci siamo abituati a notizie di questo genere, ma allora, perfino nel Chiapas militarizzato e paramilitarizzato, questo risultava un fatto straordinario. Ovviamente, la notizia finì sulle prime pagine di tutti i giornali.

Dopo tre settimane si sarebbero svolte le elezioni nelle quali il PRI avrebbe perso la Presidenza, ed in agosto il governatorato. Il presidente Ernesto Zedillo, storicamente e personalmente coinvolto nella guerra contro gli indigeni del Chiapas in generale, e quelli di El Bosque in particolare, si preparava a visitare l’entità martedì 13 per inaugurare una strada nella Selva Lacandona, ma sospese la visita. Il candidato priista a governatore, Sami David, pensò ai suoi affari. L’Esercito federale inviò centinaia di effettivi, occupò il luogo dell’imboscata, la città, le strade e fece incursioni nelle comunità zapatiste. Tuttavia, la prima ipotesi della Segreteria della Difesa Nazionale fu che poteva trattarsi di “una cellula dell’Esercito Popolare Rivoluzionario (EPR)” (La Jornada 13/06/2000), cosa che sorprese molto perché né allora né mai l’EPR è stato presente nella zona.

Più credibile sembrò l’ipotesi, diffusa lo stesso giorno, della Central Independiente de Obreros Agrícolas y Campesinos (CIOAC), storicamente presente nella regione: potevano essere stati i “paramilitari” del Mira (anche se visto in prospettiva, il gruppo paramilitare a El Bosque, temibile e letale, era conosciuto come Los Plátanos, dal nome della comunità in cui vivevano i suoi membrid, insieme a poiziotti judiciales, da dove erano partiti il 10 1998 per partecipare al massacro di zapatisti a Unión Progreso; a Los Plátanos, io stesso ero stato presente, mesi prima dell’imboscata, ad “una distruzione mediatica” di coltivazioni di marijuana col pretesto, alla fine fallito, di accusare l’EZLN.

La polizia federale inizialmente parlò di narcotrafficanti; non era un mistero il passaggio di marijuana proveniente da Huitiupán.

Il massacro avvenne un lunedì. Il sabato precedente gli zapatisti aveva commemorato il secondo anniversario dei fatti di Unión Progreso e Chavajeval e l’arresto delle autorità autonome di San Juan de la Libertad. Diego Cadenas, allora giovane avvocato del Frayba, il giorno dell’imboscata dichiarò a La Jornada che quel 10 giugno, mentre si stava recando ad Unión Progreso per partecipare alle cerimonie religiose per il secondo anniversario del massacro del 1998, ai posti di blocco di Puerto Caté e San Andrés Larráinzar i militari gli dissero che erano “sospese le garanzie individuali”. Non era così.

Due giorni dopo, un commando di 10 o 15 individui, con equipaggiamento ed armi di grosso calibro, tese un’imboscata al pick up verde scuro su cui viaggiavano, provenienti da Simojovel, otto poliziotti e l’autista del municipio di El Bosque, minorenne e figlio del sindaco Manuel Gómez Ruiz. Il giovane Rosemberg Gómez Pérez, che guidava il veicolo con i due comandanti in cabina, e l’agente di Pubblica Sicurezza Belisario Gómez Pérez nel rimorchio con i suoi commilitoni, gravemente feriti e creduti morti dagli aggressori, sarebbero sopravvissuti e quindi gli unici testimoni oculari.

La Jornada scriveva che nel corso del 2000 questa era “l’ottava imboscata”; gli aggressori avevano già lasciato 20 morti ed un ugual numero di feriti. I poliziotti caduti a Las Lagunas erano Francisco Escobar Sánchez, Rodolfo Gómez Domínguez, Guadalupe Margarito Rodríguez Félix, Arbey Vázquez Gómez e Francisco Pérez Mendoza. Oggi due di loro sono ancora ricordati da due croci di cemento sulla curva dove furono crivellati di colpi. Si contarono 85 colpi di AK-47 e R-15.

L’EZLN si dissocia e indaga

Il giorno dopo l’imboscata, il Comitato Clandestino Rivoluzionario Indigeno, Comando Generale dell’EZLN emise un breve comunicato: “Secondo i dati raccolti, l’attacco è avvenuto con tattiche da narcotrafficanti, paramilitari o militari. L’uso del cosiddetto ‘colpo di grazia’ è ricorrente in questi gruppi armati. L’attacco è avvenuto in una zona satura di truppe governative (Esercito e polizia), dove è molto difficile che un gruppo armato possa muoversi senza essere scoperto e senza la complicità delle autorità. Il gruppo attaccante possedeva informazioni privilegiate sui movimenti e sul numero di persone imboscate. Una tale informazione può essere ottenuta solo da persone del governo o vicine ad esso”.

Il comando ribelle segnalava: “L’EZLN sta investigando per fare luce sull’identità e sui motivi del gruppo aggressore. Tutto indica che sarebbero del governo (o con il sostegno governativo) le persone che hanno compiuto l’aggressione, poiché in questo modo avrebbero il pretesto per aumentare la militarizzazione in Chiapas, e per giustificare l’attacco contro comunità zapatiste o l’EZLN. È da notare che questo fatto rafforza il clima di instabilità di cui minaccia il candidato ufficiale se non vincerà”.

“Provocazione o no, il fatto violento è già diventato un pretesto per aumentare la presenza militare in tutto lo stato, perfino in zone molto lontane dal luogo dell’aggressione”, aggiunge il comunicato (13/6/2000), dettagliando che “nelle ultime ore si sono rafforzati i quartieri federali di Guadalupe Tepeyac, a Las Margaritas; Cuxuljá, Ocosingo; Caté, a El Bosque, e le città di Simojovel ed El Bosque. Contemporaneamente si è incrementato il numero di aerei da guerra e sorvoli nelle zone Altos, selva e nord”. E infine, “l’EZLN si dissocia da questo atto e rivolge un appello all’opinione pubblica affinché non si lasci ingannare”.

La cattura di Patishtán

Ciò nonostante, il governo statale di Roberto Albores Guillén, attraverso il suo procuratore Eduardo Montoya Liévano, spinse subito l’ipotesi che gli aggressori potessero essere zapatisti, per la presunta vendetta per il massacro contro di loro ordinato dallo stesso Albores Guillén due anni prima, anche se ammise che avrebbero potuto essere degli “assalitori”. Il convoglio attaccato, si disse, pattugliava per “combattere i pistoleros“.

Il senatore Carlos Payán Velver, membro della Cocopa, propose che l’istanza legislativa si recasse sul luogo perché la situazione era “grave e critica”. Il deputato Gilberto López y Rivas, della Cocopa, segnalò che quell’imboscata aveva tutto l’aspetto di “una provocazione dei paramilitari fomentata dal governo stesso dello stato” (La Jornada14/6/2000).

Nella stessa data, Victor Manuel Pérez López, dirigente della CIOAC, rivelò che il governo del Chiapas nel 1997 armò e finanziò “dissidenti del Partito del Lavoro” per combattere il fugace governo municipale di quel partito e della CIOAC. “Nella zona tutti sanno chi sono”, disse, e che “una volta centrato l’obiettivo” di restituire al PRI il comune, “questi si sarebbero dedicati agli assalti e al narcotraffico”. Agiscono, aggiunse, “in completa impunità, in pieno giorno, anche se militari e poliziotti realizzano pattugliamenti frequenti”.

Allora, in due imboscate precedenti, erano state assassinate quattro persone, secondo la CIOAC “basi zapatiste”. Il 13 gennaio, sulla strada per Chavajeval, fu assassinato Martín Sánchez Hernández da incappucciato armati, e poi, il primo febbraio, Rodolfo Gómez Ruiz, Lorenzo Pérez Hernández e Martín Gómez. Tutti tzotzil.

Deputati del PRD e del PAN accusarono di negligenza il segretario di Governo Mario Lescieur Talavera, e dissero che l’imboscata era il pretesto per l’invio di ulteriori elementi della Polizia Federale Preventiva. I carri armati, gli elicotteri e l’artiglieria dell’Esercito federale erano già arrivati.

L’episodio usciva allo scoperto. Urgeva correre ai ripari. Il governo credette di riuscirci, cosicché il presidente Zedillo il 19 giugno si recò a Marqués de Comillas per inaugurare una strada. Quello stesso giorno a El Bosque, l’Esercito e la PFP catturarono, senza mandato di cattura, il maestro Alberto Patishtán Gómez. Un gruppo di abitanti, membri del PRI, “visibilmente emozionati” (La Jornada, 20/6/2000) sollecitarono l’intervento del Congresso statale sostenendo che il prigioniero era innocente, “si dissociarono dai fatti violenti del 12 giugno” e dichiararono di non essere armati né di appartenere a nessun gruppo paramilitare. Non furono ascoltati, anzi, furono minacciati.

Patishtán rimase illegalmente “in stato di fermo” per un mese nell’hotel Safari di Tuxtla Gutiérrez. I suoi parenti, amici e correligionari occuparono la presidenza municipale e chiesero la liberazione del professore. Neanche il loro stesso partito li appoggiò. E non solo. L’allora deputato priista Ramiro Miceli Maza, compadre del sindaco, cioè padrino di battesimo del giovane Rosemberg, risultò un elemento chiave nello spaventarli ed accusare il maestro e leader comunitario che finì nella prigione di Cerro Hueco.

Quel 19 giugno, pronunciandosi rispetto alle imminenti elezioni del 3 luglio 2000, il subcomandante Marcos scrisse: “Nel frattempo qua stiamo tremando. E non perché ‘el croquetas‘ Albores abbia ingaggiato Alazraki per rifarsi l’immagine (probabilmente Albores cerca un posto per promuovere cibo per cani), né per i seicentomila dollari che gli verserà (soldi destinati originalmente a ‘risolvere le condizioni di povertà ed emarginazione degli indigeni chiapanechi’, Zedillo dixit). Neanche per i latrati del ‘cucciolo‘ Montoya Liévano (sempre più nervoso perché si sta scoprendo che sono stati i suoi ‘ragazzi ‘- cioè, i suoi paramilitari – i responsabili dell’attacco alla Pubblica Sicurezza a El Bosque, il 12 giugno scorso). No, stiamo tremando perché siamo zuppi di pioggia. E tra elicotteri e temporali, non si trova un buon riparo”.

Ora contro gli zapatisti

Il 10 luglio seguente, passate le elezioni federali, un mese dopo l’imboscata, la polizia statale fermò a Bochil due basi di appoggio dell’EZLN residenti ad Unión Progreso, con l’accusa di aver partecipato al crimine. Questo, anche se la Procura Generale della Repubblica sostenesse che gli attaccanti erano un gruppo di priisti dissidenti, tra i quali Patishtán; queste due basi zapatiste da mesi lanciavano accuse al sindaco Manuel Gómez Pérez per la sua scandalosa corruzione.

La Procura Generale di Giustizia dello Stato (PGJE) seguiva le proprie linee di indagine. “Ricorrendo alla polizia distaccata a Los Plátanos, al corrente dei fatti, le autorità hanno raccolto prove del delitto a carico di due indigeni di Unión Progreso” (La Jornada, 15/7/2000). Uno di loro, Salvador López González, torturato e interrogato senza traduttore, firmò una confessione ad hoc e fu imprigionato. In prigione si trovò col suo coimputato: Patishtán. Senza nemmeno conoscersi, i due si portavano addosso tutto il peso dell’imboscata.

La Jornada scrisse da Unión Progreso: “Il distaccamento di polizia che ha fermato gli zapatisti ha avuto sotto gli occhi, per lungo tempo, le coltivazioni di marijuana che ci sono a Los Plátanos. La violenza interna in quel villaggio, controllato da un noto gruppo paramilitare, è sempre servita da pretesto per accusare ed attaccare i vicini zapatisti. Secondo il rappresentante di Unión Progreso, ‘ci accusano di quello che fanno loro’. L’Esercito federale è entrato a Los Plátanos per distruggere queste coltivazioni, le uniche scoperte nella regione. Almeno in due occasioni, e senza arrestare nessuno”.

Salvador e suo fratello Manuel “furono fermati” il 10 luglio; i loro familiari dichiararono: “Quelli della Pubblica Sicurezza (SP) li hanno denudati e picchiati fino a ridurre Salvador senza conoscenza”. Con gli arrestati c’erano un bambino (“che piangeva molto”) ed un adolescente che “ci vennero ad avvisare che avevano portato via i compagni”.

Siccome quelli della SP non erano di Bochil ma di El Bosque, “affittarono la prigione “. Poi i fermati furono portati a Cerro Hueco. “Quelli della SP gli misero addosso un pugno di marijuana e delle pallottole” e rubarono 28 lattine di bibite. Manuel sarebbe poi stato rilasciato.

Esattamente un mese prima, il 10 giugno, ore prima del massacro dei poliziotti, la SP acquartierata a Los Plátanos intercettò un camioncino di Unión Progreso. L’autista era lo stesso Salvador. Lo interrogarono “su una lista di nomi. Da quel momento volevano accusare i compagni”, dichiarò un rappresentante della comunità: “Non sappiamo quanti ce ne sono nella lista. Forse siamo accusati tutti”. (Curiosamente, quasi con le stesse parole avevano espresso lo stesso timore i correligionari di Patishtán quando questi fu arrestato).

Con due capri espiatori così simbolici come Alberto e Salvador, il caso cominciava ad essere “risolto”, o almeno dimenticato dai media nazionali.

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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