intervento epistolare di Gustavo Selva

Scambio Epistolare su Etica e Politica

 

Questione di interezza

Gustavo Esteva

Marzo 2011:

Don Gustavo: Saludos. Abbiamo letto uno dei suoi ultimi scritti editi e crediamo di trovarci sulla stessa barca. Per questo vogliamo invitarla a scrivere su questo dimenticato e disdegnato (da chi sta in alto) tema dell’Etica e Politica. Un abbraccio. SupMarcos.

 

Interezza. a. Integrità | b. Rettitudine | c. Forza, costanza, fermezza d’animo.

 

Mi azzardo ad entrare in conversazione. Non voglio interferire. Ma nemmeno posso non farlo: tanto le circostanze come la lettera impongono esigenze etiche. E mi accingo a partecipare sostenuto dalle stampelle prestate da qualche amico – qualcuno vicino e immediato ed altri con la vicinanza data dai libri e dalle incarnazioni delle loro idee.

 

Pensare con la propria testa

Domandando provocatoriamente se pensiamo e perché ci rifiutiamo di farlo, Pietro Ameglio poco tempo fa ha mostrato il modo in cui il rumore a cui siamo continuamente sottoposti ostacola i pensieri e porta ad accettare infantilmente quello che viene affermato con autorità. Evoca Fromm quando segnala che, per ottenere questo risultato, si procede col distruggere ogni immagine strutturata del mondo, riducendola a piccoli pezzettini, ognuno separato dall’altro e sprovvisto di qualunque senso di totalità. I notiziari televisivi, mescolando notizie di massacri o ingiustizie sociali con cronache rosa o sport, illustrerebbero questo dispositivo che ci conduce ad ubbidire all’autorità, a piegarci ai suoi ordini. Per questo Pietro ci chiede di pensare, come condizione per essere liberi. E cita Canetti: “L’uomo libero è quello che ha imparato a liberare gli ordini” e non quello che, come un soldato, “è costantemente in attesa di essi”. 1

Arrivo all’argomento, anche prima di mettere le carte in tavola. Mi chiedo, con allarme e preoccupazione, perché milioni di messicani sono in attesa dell’ordine che indicherà loro cosa segnare sulla scheda elettorale l’anno prossimo… Mi domando come potremmo riflettere criticamente su quello che è davvero importante, senza cortine di fumo né fuochi d’artificio.

 

Pensare criticamente

Nella lettera, il sup segue don Luis per mostrare come la filosofia può prendere il posto della religione al fine di giustificare la dominazione e la barbarie, conferendo loro un fine accettabile, e come i mezzi di comunicazione di massa prendono ora il posto della filosofia in questa funzione.

Riflettendo sulla fine dell’era attuale, in una conversazione con David Cayley, Illich fa riferimento agli annunci pubblicitari che ci inondano di istruzioni e consigli che non sono più trasmessi con delle frasi, ma con icone. Le immagini sono impiegate come argomenti. “Un’icona è una cornice, scelta non da me, ma da un altro per me. Non è il caso di una frase: mediante quella libertà singolarmente bella e inerente al linguaggio che impone al mio interlocutore di aspettare pazientemente che mediti quelle parole nella mia bocca, le mie frasi possono sempre rompere la cornice che tu vuoi imporre loro. L’icona, invece, fissa subito ciò che evoca, producendo una paralisi visiva che immediatamente viene interiorizzata… La rappresentazione visiva, iconica, determina la parola al punto che non si può più pronunciare una senza evocare l’altra”. Per Illich, “la guerra del Golfo, quella guerra informatizzata che ha mostrato agli uomini la sua perfetta impotenza e contemporaneamente la sua grande assiduità dagli schermi sui quali la videro” illustra bene la condizione a cui siamo arrivati.

Illich in quell’occasione ricordava che uno dei suoi amici, il linguista tedesco Uwe Pörksen, chiamava quelle icone visiotipi, che sono forme elementari di interazione sociale che, al contrario delle parole, non permettono di formulare una frase. Nascono quando già si sono generalizzati gli “spazi virtuali” che sono apparsi negli anni settanta. “Ogni volta che vediamo un visiotipo lasciamo che la virtualità di cui è portatore ci contamini”.

Faccio questo giro perché pensare alla libertà richiede oggi di difenderci attivamente dai visiotipi che ci catturano col loro bombardamento programmato dagli specialisti e formano percezioni generali. Questo sarà sempre più difficile. Siamo in una nuova fase di programmazione. Siccome la guerra ha creato “più gente spaventata che gente insicura”, ora si cercherà di far sì che i media “modulino con rigore e intelligenza l’informazione”. Così Héctor Aguilar Camín ha spiegato il nuovo decalogo che uniformerà i criteri editoriali dei principali mezzi di comunicazione del paese. Alle 10 del mattino del 24 marzo, i 10 comandamenti dell’Accordo per la Copertura Informativa della Violenza furono presentati su una “catena nazionale volontaria” alla presenza di alti “rappresentanti” della società – lo stesso rettore della UNAM che i dirigenti del Consiglio Messicano degli Industriali, l’Unione Nazionale dei Genitori o il Comitato Centrale della Comunità Ebraica… Felipe Calderón celebrò immediatamente l’Accordo, preso per “non ignorare la violenza che quotidianamente accompagna i messicani in tutti gli ambiti della vita”. Gli sembrò “cruciale per consolidare la politica dello Stato in materia di sicurezza”. Avrebbe permesso “la gestione dell’informazione legata alla violenza”.

Cittadini allarmati, coscienti della nuova minaccia, reagirono immediatamente su twitter contro questa “gestione”: “uniformare invece di informare”; “nasce un nuovo cartello della disinformazione”; “meglio che la censura, l’autocensura”; “perché non si senta parlare di massacri prima delle elezioni”… Qualcuno decise di “spegnere la televisione e la radio”. Va bene, ma non basta scollegarsi. Per pensare con la nostra testa bisogna arrivare alla riflessione critica. “L’etica critica inizia”, scrisse Villoro, come cita il sup, “quando l’individuo si allontana dalle forme di moralità esistenti e si pone domande sulla validità delle sue regole e comportamenti. Può comprendere che la moralità sociale non rispetta le virtù che proclama”. Gli zapatisti ci convocano oggi a praticare questa etica critica.

In un momento come questo, dice Jean Robert, una dimensione etica addizionale permette di raggiungere “una nuova comprensione del nostro posto nel mondo e nella storia”. Esplorando il suo significato, Jean ricorda cosa diceva Hugo, l’amico di Illich nel secolo XII: “attraverso quello che si dice di fare, si vuole dire qualcosa che si deve fare”. Di questo si tratta, in effetti. La guerra zapatista “è una guerra per smettere di essere quello che ora siamo e così essere quello che dobbiamo essere”, sottolinea il sup, perché “vuole annullare il terreno della sua realizzazione e le possibilità dei contendenti” (zapatisti compresi), e si riconosce in altri “che anelano un mondo senza eserciti”. Se ci arrendiamo, ci fanno essere quello che non siamo. Invece di farci essere, senza senso critico, dobbiamo passare alla condizione in cui quello che facciamo è anche quello che dobbiamo fare.

 

La via armata

“La guerra è pace”, “La libertà è schiavitù”, “L’ignoranza è forza”. Queste erano le parole d’ordine del Partito Interno nel racconto allucinante di Orwell.

Tutti i giorni si ripete che la violenza di ogni tipo scatenata contro di noi non ha altro scopo che “portare tranquillità e sicurezza ai messicani”. Così ha detto Felipe Calderón celebrando l’accordo sull’uniformità, la censura e la disinformazione, che sarebbe “pieno rispetto della libertà di espressione e della libertà editoriale”.

Sì, ha detto questo.

Orwell ricorse alla sua immaginazione letteraria per avvertirci della strada che seguivano gli Stati del suo tempo – strada che sembrava invisibile benché fosse sotto gli occhi di tutti. Dobbiamo trasferire il suo avvertimento nella nostra attuale situazione.

Andrés Manuel López Obrador ripete continuamente che le uniche opzioni per accedere al potere politico sono la via armata e l’esercizio elettorale. Siccome la prima sembra essere condannata dalla storia dalla maggioranza dei messicani, secondo lui non ci resta altra scelta che le elezioni. Per questo, contro ogni esperienza, dobbiamo concentrare la nostra energia su quelle del 2012; ora sì, afferma, potremo sconfiggere la mafia politica che si è impadronita del paese.

È vero che la maggioranza dei messicani respinge la violenza. Ma nella sua rappresentazione orwelliana AMLO dissimula che queste opzioni politiche sono diventate una. Felipe Calderón ha adottato la via armata. Incapace di governare con un potere politico che non ha mai avuto – come ha constatato perfino l’ambasciatore statunitense – è ricorso ad esercito e polizia per dimostrare che governava, immagine che i media si sono affrettati a rafforzare. Le elezioni fanno parte del dispositivo. Cambiare killer non modifica la caratteristica dell’arma né la sua funzione.

“Perché – rileva la lettera a don Luis – perché la presunta grande organizzazione nazionale che si prepara affinché nelle prossime elezioni federali vinca un progetto alternativo di nazione, non fa qualcosa adesso? Se pensano di poter mobilitare milioni di messicani a votare per qualcuno, perché non mobilitarli per fermare la guerra e far sì che il paese sopravviva?”.

Non cadiamo nella trappola di valutare l’entità e la qualità di questa “organizzazione nazionale”, ancora rinchiusa nelle sue beghe di cortile, che si spegneranno solo nel circo mediatico della campagna elettorale. Speculare sulle sue possibilità non sarebbe pensare liberamente. Implicherebbe attenersi agli ordini del Ministero della Verità e del Partito Interno, rifiutarsi di pensare.

Dobbiamo rendere evidente, come dice don Luis, che la moralità attuale non ha le virtù che proclama. Il paese cade a pezzi. “Si sta distruggendo il tessuto sociale su quasi tutto il territorio nazionale”. Dalla guerra attuale “non solo ne verranno migliaia di morti…. e lauti  guadagni economici. Ma anche, e soprattutto, ne verrà una nazione distrutta, spopolata, irrimediabilmente spezzata”. È questo quello che ci sta accadendo. Dobbiamo guardarlo con chiarezza per agire di conseguenza. Queste proposte, invece, sostenendo in maniera equivoca, che non c’è altra strada che le elezioni, ci condannano alla paralisi. Vogliono alimentare illusioni statistiche per inciampare di nuovo nella stessa pietra. Ostacolano la nostra attuale lotta.

È necessario riconoscere fortemente, senza vacillare, senza paura, la condizione in cui siamo. Al margine di qualsiasi discussione teorica e storica sul valore e sul significato della democrazia rappresentativa, le elezioni oggi in Messico non costituiscono un’autentica alternativa politica. Non importa chi vincerà. Sono solo un’altra forma della via armata che prevale nel paese, quella che tiene la quinta parte dei messicani negli Stati Uniti ed esclude gli altri, abbassa le loro condizioni di vita, distrugge i loro ambienti naturali e cancella passo dopo passo le loro libertà.

Le elezioni di 2012 non farebbero largo al cambiamento per ricostruire in pace quello che rimane del paese. Esposte come unica opzione, presuntamente pacifica, non sono altro che un ingrediente in più della guerra scatenata contro di noi. Contribuiscono ad estenderla ed approfondirla. Alzano un muro, nella percezione di milioni di persone, che impedisce loro di costruire un’alternativa reale.

Alcuni, diceva Foucault, vogliono cambiare l’ideologia senza modificare le istituzioni: sostituire solamente le teste. Altri vogliono riformare le istituzioni senza cambiare l’ideologia. Quella che manca è l’incontro simultaneo tra ideologie e istituzioni. Per questo dobbiamo chiederci in che misura si impone, oggi e qui, quello che esprime con eloquenza Ali Abu Awwad, un giovane palestinese che guida un nuovo movimento nei territori occupati da Israele: “La pace stessa è la strada per la pace…e non c’è pace senza libertà”.

 

Il Messico non è Gaza

No, no lo è. Ma potrebbe esserlo. Esistono analogie scandalose che meritano considerazione. Non sarebbe utile riflettere su alcuni somiglianze raccapriccianti, come quella che sembra esistere tra i palestinesi in Israele ed i messicani in Arizona? O la sproporzione tra la forza militare/fisica di Israele e quella della Palestina e quella che esiste tra i corpi militari, polizia, paramilitari e parapolizie degli Stati Uniti e del Messico, da una parte, e la gente, dall’altra? E c’è qualcosa di più grave di queste analogie. La cosa più grave, là e qui, è il silenzio, l’abitudine: abituarsi a vedere con naturalezza l’insopportabile.

Molte voci esprimono, dentro lsraele, crescente preoccupazione per gli atteggiamenti che osservano nella loro società. Neppure riescono a risvegliarla gli orrori del recente libro che riporta le testimonianze dei saldati israeliani che hanno partecipato negli ultimi 10 anni all’occupazione della Palestina. “Quello che passa come normalità sotto l’occupazione”, segnala David Shulman, “è anche peggiore che negli anni di combattimento per il giogo incessante, quotidiano, disumanizzante. Chiunque leggerà questo libro vedrà il modo in cui l’occupazione si è trasformata in un sistema degradante di controllo… Ho constatato gli effetti devastanti della droga dell’abitudine… Ho visto come il male, inserito in un sistema ramificato e spesso impersonale, può scomporsi in piccole azioni quotidiane che, per molto ripugnanti che siano al principio, presto diventano routine” . 2

Non voglio mettere l’analogia al servizio del mio argomento. Forse, dopo l’Accordo, dagli schermi scompariranno gli spettacoli di violenza che sono andati aumentando. Si ridurrà la dose di droga. Forse, come hanno commentato flemmaticamente alcuni giornalisti dopo aver ascoltato il decalogo dei criteri editoriali, cambierà il linguaggio. Ora si dirà: “Due decapitati con poca violenza”. Oppure: “Gli asociali hanno smembrato gli arti della vittima che non ha sofferto”… Mi preoccupa che in qualche misura ci siamo abituati a quelle immagini di violenza. Ma mi preoccupa molto più che si sia fatta l’abitudine alla criminalizzazione dei movimenti sociali. I media si accanirono in alcuni aspetti della violenza ad Atenco o Oaxaca. Ma eludono od omettono sempre di più quella che si impiega quotidianamente in tutto il paese contro i più diversi movimenti sociali, ed in particolare quella che si è impiegata per anni in tutti i territori indigeni e contro le comunità zapatiste e che si è recentemente intensificata.

Mi preoccupa che questo silenzio non copra solamente i media ma abbracci già ampi settori sociali – perfino quelli che teoricamente difendono le cause popolari. Gli stessi che denunciano con risalto ogni gesto di Calderón o dei suoi rivali politici. Quelli che proclamano il loro impegno per la giustizia sociale o per il bene del paese e promettono di riportare quello che i neoliberali ci hanno tolto e portare molte altre benedizioni. Quelli che tracciano la loro linea rispetto alla repressione. Perché restano in silenzio davanti agli oltraggi costanti contro la gente ed i movimenti che dicono di difendere? Perché non denunciano, con lo stesso risalto, le repressioni e le aggressioni in cui incorrono i loro stessi colleghi e soci di partito e di governo? Perché ormai al potere adottano gli stessi comportamenti, incorrono nella stessa corruzione, proteggono la stessa impunità? Alla luce dell’esperienza, con quale autorità morale pretendono ora che si cancelli tutto e non si prenda in considerazione quello che è successo e continua a succedere in nome di una nuova illusione, di una semplice promessa?

Di questo passo, se invece di iniziative degne e conseguenti seguitiamo a intrattenerci con questi passatempi, non ci sarà nazione nella quale possa materializzarsi il sogno di un vago “progetto alternativo” che si continua ad alimentare.

“Vi auguro l’Egitto”, ha scritto alcuni giorni fa il palestinese Omar Barghouti. “Vi auguro la capacità di resistere, di lottare per la giustizia sociale ed economica e di ottenere la vostra vera libertà.

“Vi auguro la volontà e la capacità di uscire dalla vostra prigione camuffata con tanta cura. Nella nostra parte del mondo i muri delle prigioni sono troppo ovvi, dominanti, asfissianti. Per questo siamo ancora ribelli, preparandoci al giorno della nostra libertà. Quando raccoglieremo potere popolare sufficiente, romperemo le catene ossidate che hanno imprigionato per tutta la vita menti e corpi. Le celle della vostra prigione sono differenti. I muri sono ben nascosti, non sia mai che evochino la volontà di resistere. Non ci sono porte nelle celle della vostra prigione: potete spostarvi ‘liberamente’ senza riconoscere mai la prigione più grande nella quale siete confinati….

“Vi auguro l’Egitto per decolonizzare le vostre menti e fare a pezzi la scheda con la domanda: ‘che cosa volete?’, perché tutte le risposte che date sono sbagliate. Lì la vostra unica opzione sembra essere tra il male e il male minore.

“Vi auguro l’Egitto affinché, come i tunisini, gli egiziani, i libici, i bahreinesi, gli yemeniti, e certamente i palestinesi, possiate gridare: “No! non vogliamo scegliere la risposta meno brutta. Vogliamo un’altra opzione che non c’è nella vostra maledetta lista”. “Vi auguro l’Egitto affinché possiate collettivamente, democratica e responsabilmente ricostruire le vostre società, per restaurare le leggi affinché siano al servizio del popolo, non del capitale selvaggio e del suo esercito di banche; per farla finita col razzismo ed ogni tipo di discriminazione; per preservare ed essere in armonia con l’ambiente; per tagliare guerre e crimini di guerra e non posti di lavoro, prestazioni sociali e servizi pubblici; per abbattere il governo tiranno ed oppressore delle multinazionali, e per cacciare l’inferno dall’Afghanistan, dall’Iraq e da tutti i luoghi in cui, col pretesto di “diffondere la democrazia”, i vostri moralmente superiori crociati hanno sparso la disintegrazione sociale e culturale, la povertà abietta e la disperazione assoluta…

“La nostra oppressione e la vostra sono profondamente correlate e intrecciate… La nostra battaglia collettiva per diritti e libertà non è uno slogan, ma una lotta per la vera emancipazione e l’autodeterminazione, un’idea il cui momento è arrivato. Dopo l’Egitto toccherà a noi. È l’ora della liberazione e della giustizia per la Palestina. È ora che tutti i popoli di questo mondo, in particolare i più sfruttati ed oppressi, riaffermiamo la nostra comune umanità e recuperiamo il controllo sul nostro destino comune”.

 

Rese e resistenze

La lettera a don Luis descrive con precisione la situazione attuale in Messico e le prospettive. Voglio aggiungere un altro aspetto che permette di illustrare le risposte.

Felipe Calderón non ha saputo governare, ma può ancora distruggere e prosegue nell’azione che ha orientato le politiche ufficiali degli ultimi 30 anni: mettere il paese nelle mani del mercato, del capitale. Non c’è altra soluzione, sosteneva Salinas, che salire sulla locomotiva statunitense, anche se come camerieri. Per facilitare l’aggancio aprì al mercato la terra ejidale e comunale, e nella sua febbre privatizzatrice smantellò buona parte del settore pubblico.

Aggrappato a questa tradizione, Calderón ha messo in vendita quanto ha potuto ed ora deve consegnare la merce. Per esempio: ha ceduto in concessione quasi la decima parte del paese per 50 anni, e queste concessioni prevedono l’obbligo da parte del governo messicano di disfarsi della gente che abiti nei territori dati in concessione. Un altro affare sta nel demandarle se questo non avviene nei termini previsti. Ed i termini non si rispettano perché la gente resiste.

La resistenza incomincia di solito come lotta localizzata di un piccolo gruppo che cerca di proteggere le proprie terre e acque, ma presto incontra legami orizzontali e s’incatena a lotte simili in altre parti fino a formare ampie alleanze che si estendono in tutto il paese. Questa lotta racchiude una mutazione politica di grande trascendenza: rappresenta il passaggio dalla lotta per la terra alla difesa del territorio. Chi è riuscito ad ottenere un pezzo di terra che assicuri la sua sussistenza e mantenere il tessuto sociale comunitario, affronta in maniera organizzata la nuova sfida. Non difende più, o non solo, quel pezzo di terra. Esercita una forma di sovranità popolare in cui la difesa del suo territorio è anche la difesa della sovranità nazionale. Abbondano esempi di queste lotte specifiche che si collegano anche con alte simili, come quelle contro le dighe e contro molti megaprogetti. In tutti i casi è evidente il significato e le conseguenze della guerra descritti nella lettera a don Luis. La distruzione, a prima vista insensata, irrazionale, senza ragione, una distruzione che colpisce la natura ma ancor di più la gente che si occupa di essa e vive dei suoi frutti, acquisisce il suo senso ultimo nella ricostruzione – quando sono spariti il tessuto sociale e la sussistenza autonoma, e gli individui, uno alla volta, separati, restano esposti alla volontà del mercato, del capitale, alla schiavitù che questi impongono. “Che facciano i giardinieri in Texas o mettano su un negozietto”, diceva Fox quando gli domandavano che cosa avrebbero fatto quelli che il suo governo sgomberava. Anche quelli di Calderón se ne vanno dal paese, sono già sotto terra o sono “antisociali” – l’etichetta che le forze pubbliche appiccicano indistintamente a delinquenti e ribelli.

Oggi abbiamo bisogno della spinta che ci augura il palestinese Barghouti, quella che 17 anni fa ci permise di fermare la guerra di sterminio di Salinas ed oggi può fermare quella di Calderón e liberarci di lui. Ma non basterebbe disfarci delle classi politiche… per poi ricominciare di nuovo con la pratica elettorale, fosse anche con facce nuove. Cerchiamo un’altra trasformazione, una molto altra, più vicino e più lontano: vogliamo smantellare gli apparati politici ed economici della dominazione, invece di tentare di conquistarli con l’illusione di utilizzarli in maniera diversa; e vogliamo mantenere nelle nostre mani la transizione, per assicurare che sia l’inizio della nostra ricostruzione, non più della stessa cosa. E per quello che bisogna fare, adesso e dopo, abbiamo bisogno dell’etica critica.

 

Perché don Luis?

È utile domandarci perché gli zapatisti hanno deciso una corrispondenza pubblica col filosofo Luis Villoro richiamando nuovamente la nostra attenzione. Non si tratta più di estendere l’omaggio che gli resero a San Cristóbal. È che don Luis incarna, come molte poche persone, i temi che gli zapatisti considerano urgente esaminare. Esprime in pieno il rapporto tra etica e politica.

Negli anni ’90 scrisse El poder y el valor: Fundamentos de una ética política, un libro che segue e culmina la sua opera. Aveva vissuto, come filosofo, nel seno della ragione sul cui dominio ha confidato l’Occidente negli ultimi due secoli – quella che concepì “il progetto storico di rompere con la dominazione e la miseria e di raggiungere, finalmente, una società liberata e razionale, degna dell’uomo”. Invece di arrendersi al fallimento di quella ragione e la sua sequela di conformità e delusione, don Luis tentò una riflessione innovativa. “È ancora possibile – si domandò – un comportamento politico che proponga di contrastare il male? Si potrebbe rinnovare, davanti alla delusione, una riflessione etica?… È inevitabile l’opposizione tra la volontà di potere e la realizzazione del bene? Come si può articolare il potere col valore?”. Il libro risponde radicalmente a queste domande: “È un progetto di riforma del pensiero politico moderno, con la speranza di contribuire, in questa triste epoca, a scoprire i ‘mostri della ragione’ che hanno devastato il nostro secolo”.

Don Luis ha sofferto e goduto, come tanti di noi, la scossa del 1994 – quella che mosse il mondo intero, come riconoscono oggi tutti i movimenti antisistema. Da allora ha accompagnato gli zapatisti, vicino o lontano a seconda delle circostanze. Fu loro consulente nei negoziati col governo, nel 1996, e fu uno dei tre che si sedettero al tavolo principale in cui si giunse ai principali accordi. Soffrì come pochi la conclusione – che non dobbiamo dimenticare. Siamo nel 10º anniversario della Marcia del Colore della Terra, alle cui riunioni parteciparono circa 40 milioni di messicani. Migliaia di organizzazioni, a nome di milioni di persone, appoggiarono l’iniziativa di riforma costituzionale concordata con la commissione del Congresso, la Cocopa. Non ci fu una sola organizzazione, una sola, che si oppose. Ma il Congresso produsse una controriforma infame e la Corte Suprema, ovviamente, se ne lavò le mani.

Il culmine dell’opera di don Luis, in quel libro ed in altri testi, riflette la sua stessa trasformazione. Trovò ispirazione negli zapatisti e nelle comunità indios e lì scoprì l’alternativa che stava cercando. Trasformandosi, don Luis ci trasforma: la sua lucida riflessione apporta elementi centrali a quello che oggi manca. L’utopia si è fatta realtà nel presente, ci dice dal 2009; ha già posto in questo mondo, nelle comunità zapatiste. La democrazia non può stare in un luogo diverso da quello in cui sta il popolo, affermò, ed osservò “un’inversione dei rapporti di potere esistenti” e “l’abolizione di ogni dominazione dall’alto” nell’azione comunitaria che riorganizza la società dal basso, nella propria geografia, nel proprio calendario…

“Il desiderio di autenticità”, insiste don Luis, “è l’impulso a liberarsi dell’oppressione della farsa”. Della farsa, dice; la farsa. La ragione che risponde a quel desiderio scopre i veri valori, e così “assumono primato quelli che integrano la dignità insostituibile della persona: libertà, autenticità, responsabilità, uguaglianza”. E non dimentichiamo le ultime parole di quel libro eccezionale: si tratta di “compiere il proposito dell’amore: realizzare sé stesso per l’affermazione dell’altro”. Oltre ogni farsa.

Tra interminabili risse e circhi mediatici, aggrappati alle loro poltrone, le classi politiche continuano a lacerare il tessuto sociale e distruggere la natura fino a minare le basi stesse della sopravvivenza. E’ una strada senza uscita. È inutile, profondamente immorale continuare a percorrerla. Dobbiamo uscirne. E questo esige, innanzitutto, impegnarci seriamente nella riflessione, nella critica, nell’etica. Con integrità. Seguendo le orme di don Luis e la nuova convocazione degli zapatisti.

San Pablo Etla,

marzo 2011

 

Note:

1 Tomo della rivista Conspiratio, 2, nov.-dic. 2009, citazioni di Pietro Ameglio, Iván Illich e Jean Robert.

2 David Shulman, “Israel & Palestine: Breaking the Silence”, The New York Review of Books, LVIII-3, February 24-March 9, 2011, p.43

 

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

Versione in castigliano http://revistarebeldia.org/revistas/numero77/10esteva.pdf

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