..alcuni link di articoli sul Messico..

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o
http://www.proceso.com.mx/rv/modHome/detalleExclusiva/91243

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sulla legalità a Modena..e nel resto d’Italia..

La legalità di Pighi è piena di sangue.
La legalità di Pighi e del PD è fatta di ingiustizie e di sfruttamento, di morti sul lavoro e di lavoro nero nei cantieri.
La legalità di Pighi e del PD è figlia delle Stragi di Stato, dei segreti di Stato, dei servizi segreti “Deviati”.
La loro legalità sbandierata è fumo negli occhi, serve a tutelare i ricchi e a sfruttare i poveri, i precari e gli immigrati.
La loro legalità sono i lagher chiamati C.I.E.
La loro legalità è fatta di favori e di inciuci, elargendo soldi a chi gli porta voti, è legalità fatta di potentati.
E’ legalità fatta di inquinamenti di falda, di inquinamento di aria.
E’ legalità fatta di mistificazioni per fermare le auto di chi lavora in inverno e autorizzare inquinamento di eccellenza per la “città dei motori” in primavera.
E’ legalità fatta di guerre e di produzioni di armi chiamate ovviamente in altro modo.
E’ legalità fatta di sfratti, di gente che dorme per strada, di precarietà, di ricatti e di guerre tra poveri.
E’ legalità fatta di manganellate date al popolo che si oppone al TAV.
E’ legalità fatta di nucleare di quarta generazione e di un referendum popolare (illegale?) che si era espresso nettamente contro.
E’ legalità di finanziamento pubblico ai partiti abolito da un referendum popolare (illegale?) e rientrato con leggine da impero.
Si lamentano che dire “Basta Pighi” come si legge sui muri in questi giorni è squadrismo, invece mandare a manganellare 70 poliziotti nello sgombero di Libera (sgombero illegale) è atto di amore e di dolcezza?
Cambiare i codici (illegalmente) di tutela del territorio e delle falde per poter costruire autodromi o interi quartieri invece è atto di intelligenza democratica?
La loro legalità non ci interessa, continueremo dal basso a riappropriarci di ciò che è nostro senza contare su soldi fatti con lo sfruttamento e senza compromessi con le istituzioni.
Questa è la nostra vita, a noi spetta renderla dignitosa e rispettosa dell’ambiente e delle altre persone.
Non abbiamo eletto nessuno a rappresentarci e loro vogliono governare anche a nostro nome, gestendo tutto, anche ciò che è frutto del nostro lavoro.
Non ci siederemo su nessuna poltrona, preferiamo restare in mezzo alla gente a costruire qualcos’altro che non sia basato sul sangue dei Giuliani, dei Cucchi, degli Aldrovandi, dei Pinelli, degli immigrati morti in mare, dei bambini saltati sulle mine antiuomo italiane.
Non hanno mai condannato il colonialismo, il militarismo assassino contro lo stesso popolo italiano, si sono dimenticati i morti del 7 aprile in piazza grande a Modena, si sono dimenticati che il loro PIL è figlio dello sfruttamento del pianeta, dei morti sul lavoro, delle fatiche di chi lavora.
La loro legalità è figlia dei morti sulle strade, dell’esaltazione della velocità, degli sgomberi degli spazi sociali, sono figuri tristi, sono persone morte dentro.
La nostra legalità è quella degli Arditi del Popolo che per primi insorsero contro il fascismo, è quella dei disertori che si rifiutano di uccidere loro simili, è quella dei partigiani che non hanno aspettato di iscriversi nel registro comunale prima di combattere.
La lotta per l’eguaglianza e la libertà continua, dal basso, con gioia e determinazione.
E’ ora di occupare 10, 100 spazi e liberarli alla socialità collettiva, è ora di occupare le case lasciate vuote per la speculazione e dare casa a chi deve dormire in condizioni non dignitose.
Bertoli Franco (colby)
Attivista dello Spazio Sociale Libera e
Segretario provinciale dell’USI-AIT Modena.
Contatti:
Libera, USI Modena:
http://www.libera-unidea.org/home.htm
http://www.facebook.com/home.php?#!/profile.php?id=100001711977225
Modena senza Libera non Esiste:
http://www.facebook.com/home.php?#!/group.php?gid=47910399607
USI-AIT Modena:
http://www.facebook.com/home.php?#!/group.php?gid=152508138100302
7aprile 1920 Una storia di Modena:
http://www.facebook.com/home.php?#!/group.php?gid=51669577059

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intervento epistolare di Gustavo Selva

Scambio Epistolare su Etica e Politica

 

Questione di interezza

Gustavo Esteva

Marzo 2011:

Don Gustavo: Saludos. Abbiamo letto uno dei suoi ultimi scritti editi e crediamo di trovarci sulla stessa barca. Per questo vogliamo invitarla a scrivere su questo dimenticato e disdegnato (da chi sta in alto) tema dell’Etica e Politica. Un abbraccio. SupMarcos.

 

Interezza. a. Integrità | b. Rettitudine | c. Forza, costanza, fermezza d’animo.

 

Mi azzardo ad entrare in conversazione. Non voglio interferire. Ma nemmeno posso non farlo: tanto le circostanze come la lettera impongono esigenze etiche. E mi accingo a partecipare sostenuto dalle stampelle prestate da qualche amico – qualcuno vicino e immediato ed altri con la vicinanza data dai libri e dalle incarnazioni delle loro idee.

 

Pensare con la propria testa

Domandando provocatoriamente se pensiamo e perché ci rifiutiamo di farlo, Pietro Ameglio poco tempo fa ha mostrato il modo in cui il rumore a cui siamo continuamente sottoposti ostacola i pensieri e porta ad accettare infantilmente quello che viene affermato con autorità. Evoca Fromm quando segnala che, per ottenere questo risultato, si procede col distruggere ogni immagine strutturata del mondo, riducendola a piccoli pezzettini, ognuno separato dall’altro e sprovvisto di qualunque senso di totalità. I notiziari televisivi, mescolando notizie di massacri o ingiustizie sociali con cronache rosa o sport, illustrerebbero questo dispositivo che ci conduce ad ubbidire all’autorità, a piegarci ai suoi ordini. Per questo Pietro ci chiede di pensare, come condizione per essere liberi. E cita Canetti: “L’uomo libero è quello che ha imparato a liberare gli ordini” e non quello che, come un soldato, “è costantemente in attesa di essi”. 1

Arrivo all’argomento, anche prima di mettere le carte in tavola. Mi chiedo, con allarme e preoccupazione, perché milioni di messicani sono in attesa dell’ordine che indicherà loro cosa segnare sulla scheda elettorale l’anno prossimo… Mi domando come potremmo riflettere criticamente su quello che è davvero importante, senza cortine di fumo né fuochi d’artificio.

 

Pensare criticamente

Nella lettera, il sup segue don Luis per mostrare come la filosofia può prendere il posto della religione al fine di giustificare la dominazione e la barbarie, conferendo loro un fine accettabile, e come i mezzi di comunicazione di massa prendono ora il posto della filosofia in questa funzione.

Riflettendo sulla fine dell’era attuale, in una conversazione con David Cayley, Illich fa riferimento agli annunci pubblicitari che ci inondano di istruzioni e consigli che non sono più trasmessi con delle frasi, ma con icone. Le immagini sono impiegate come argomenti. “Un’icona è una cornice, scelta non da me, ma da un altro per me. Non è il caso di una frase: mediante quella libertà singolarmente bella e inerente al linguaggio che impone al mio interlocutore di aspettare pazientemente che mediti quelle parole nella mia bocca, le mie frasi possono sempre rompere la cornice che tu vuoi imporre loro. L’icona, invece, fissa subito ciò che evoca, producendo una paralisi visiva che immediatamente viene interiorizzata… La rappresentazione visiva, iconica, determina la parola al punto che non si può più pronunciare una senza evocare l’altra”. Per Illich, “la guerra del Golfo, quella guerra informatizzata che ha mostrato agli uomini la sua perfetta impotenza e contemporaneamente la sua grande assiduità dagli schermi sui quali la videro” illustra bene la condizione a cui siamo arrivati.

Illich in quell’occasione ricordava che uno dei suoi amici, il linguista tedesco Uwe Pörksen, chiamava quelle icone visiotipi, che sono forme elementari di interazione sociale che, al contrario delle parole, non permettono di formulare una frase. Nascono quando già si sono generalizzati gli “spazi virtuali” che sono apparsi negli anni settanta. “Ogni volta che vediamo un visiotipo lasciamo che la virtualità di cui è portatore ci contamini”.

Faccio questo giro perché pensare alla libertà richiede oggi di difenderci attivamente dai visiotipi che ci catturano col loro bombardamento programmato dagli specialisti e formano percezioni generali. Questo sarà sempre più difficile. Siamo in una nuova fase di programmazione. Siccome la guerra ha creato “più gente spaventata che gente insicura”, ora si cercherà di far sì che i media “modulino con rigore e intelligenza l’informazione”. Così Héctor Aguilar Camín ha spiegato il nuovo decalogo che uniformerà i criteri editoriali dei principali mezzi di comunicazione del paese. Alle 10 del mattino del 24 marzo, i 10 comandamenti dell’Accordo per la Copertura Informativa della Violenza furono presentati su una “catena nazionale volontaria” alla presenza di alti “rappresentanti” della società – lo stesso rettore della UNAM che i dirigenti del Consiglio Messicano degli Industriali, l’Unione Nazionale dei Genitori o il Comitato Centrale della Comunità Ebraica… Felipe Calderón celebrò immediatamente l’Accordo, preso per “non ignorare la violenza che quotidianamente accompagna i messicani in tutti gli ambiti della vita”. Gli sembrò “cruciale per consolidare la politica dello Stato in materia di sicurezza”. Avrebbe permesso “la gestione dell’informazione legata alla violenza”.

Cittadini allarmati, coscienti della nuova minaccia, reagirono immediatamente su twitter contro questa “gestione”: “uniformare invece di informare”; “nasce un nuovo cartello della disinformazione”; “meglio che la censura, l’autocensura”; “perché non si senta parlare di massacri prima delle elezioni”… Qualcuno decise di “spegnere la televisione e la radio”. Va bene, ma non basta scollegarsi. Per pensare con la nostra testa bisogna arrivare alla riflessione critica. “L’etica critica inizia”, scrisse Villoro, come cita il sup, “quando l’individuo si allontana dalle forme di moralità esistenti e si pone domande sulla validità delle sue regole e comportamenti. Può comprendere che la moralità sociale non rispetta le virtù che proclama”. Gli zapatisti ci convocano oggi a praticare questa etica critica.

In un momento come questo, dice Jean Robert, una dimensione etica addizionale permette di raggiungere “una nuova comprensione del nostro posto nel mondo e nella storia”. Esplorando il suo significato, Jean ricorda cosa diceva Hugo, l’amico di Illich nel secolo XII: “attraverso quello che si dice di fare, si vuole dire qualcosa che si deve fare”. Di questo si tratta, in effetti. La guerra zapatista “è una guerra per smettere di essere quello che ora siamo e così essere quello che dobbiamo essere”, sottolinea il sup, perché “vuole annullare il terreno della sua realizzazione e le possibilità dei contendenti” (zapatisti compresi), e si riconosce in altri “che anelano un mondo senza eserciti”. Se ci arrendiamo, ci fanno essere quello che non siamo. Invece di farci essere, senza senso critico, dobbiamo passare alla condizione in cui quello che facciamo è anche quello che dobbiamo fare.

 

La via armata

“La guerra è pace”, “La libertà è schiavitù”, “L’ignoranza è forza”. Queste erano le parole d’ordine del Partito Interno nel racconto allucinante di Orwell.

Tutti i giorni si ripete che la violenza di ogni tipo scatenata contro di noi non ha altro scopo che “portare tranquillità e sicurezza ai messicani”. Così ha detto Felipe Calderón celebrando l’accordo sull’uniformità, la censura e la disinformazione, che sarebbe “pieno rispetto della libertà di espressione e della libertà editoriale”.

Sì, ha detto questo.

Orwell ricorse alla sua immaginazione letteraria per avvertirci della strada che seguivano gli Stati del suo tempo – strada che sembrava invisibile benché fosse sotto gli occhi di tutti. Dobbiamo trasferire il suo avvertimento nella nostra attuale situazione.

Andrés Manuel López Obrador ripete continuamente che le uniche opzioni per accedere al potere politico sono la via armata e l’esercizio elettorale. Siccome la prima sembra essere condannata dalla storia dalla maggioranza dei messicani, secondo lui non ci resta altra scelta che le elezioni. Per questo, contro ogni esperienza, dobbiamo concentrare la nostra energia su quelle del 2012; ora sì, afferma, potremo sconfiggere la mafia politica che si è impadronita del paese.

È vero che la maggioranza dei messicani respinge la violenza. Ma nella sua rappresentazione orwelliana AMLO dissimula che queste opzioni politiche sono diventate una. Felipe Calderón ha adottato la via armata. Incapace di governare con un potere politico che non ha mai avuto – come ha constatato perfino l’ambasciatore statunitense – è ricorso ad esercito e polizia per dimostrare che governava, immagine che i media si sono affrettati a rafforzare. Le elezioni fanno parte del dispositivo. Cambiare killer non modifica la caratteristica dell’arma né la sua funzione.

“Perché – rileva la lettera a don Luis – perché la presunta grande organizzazione nazionale che si prepara affinché nelle prossime elezioni federali vinca un progetto alternativo di nazione, non fa qualcosa adesso? Se pensano di poter mobilitare milioni di messicani a votare per qualcuno, perché non mobilitarli per fermare la guerra e far sì che il paese sopravviva?”.

Non cadiamo nella trappola di valutare l’entità e la qualità di questa “organizzazione nazionale”, ancora rinchiusa nelle sue beghe di cortile, che si spegneranno solo nel circo mediatico della campagna elettorale. Speculare sulle sue possibilità non sarebbe pensare liberamente. Implicherebbe attenersi agli ordini del Ministero della Verità e del Partito Interno, rifiutarsi di pensare.

Dobbiamo rendere evidente, come dice don Luis, che la moralità attuale non ha le virtù che proclama. Il paese cade a pezzi. “Si sta distruggendo il tessuto sociale su quasi tutto il territorio nazionale”. Dalla guerra attuale “non solo ne verranno migliaia di morti…. e lauti  guadagni economici. Ma anche, e soprattutto, ne verrà una nazione distrutta, spopolata, irrimediabilmente spezzata”. È questo quello che ci sta accadendo. Dobbiamo guardarlo con chiarezza per agire di conseguenza. Queste proposte, invece, sostenendo in maniera equivoca, che non c’è altra strada che le elezioni, ci condannano alla paralisi. Vogliono alimentare illusioni statistiche per inciampare di nuovo nella stessa pietra. Ostacolano la nostra attuale lotta.

È necessario riconoscere fortemente, senza vacillare, senza paura, la condizione in cui siamo. Al margine di qualsiasi discussione teorica e storica sul valore e sul significato della democrazia rappresentativa, le elezioni oggi in Messico non costituiscono un’autentica alternativa politica. Non importa chi vincerà. Sono solo un’altra forma della via armata che prevale nel paese, quella che tiene la quinta parte dei messicani negli Stati Uniti ed esclude gli altri, abbassa le loro condizioni di vita, distrugge i loro ambienti naturali e cancella passo dopo passo le loro libertà.

Le elezioni di 2012 non farebbero largo al cambiamento per ricostruire in pace quello che rimane del paese. Esposte come unica opzione, presuntamente pacifica, non sono altro che un ingrediente in più della guerra scatenata contro di noi. Contribuiscono ad estenderla ed approfondirla. Alzano un muro, nella percezione di milioni di persone, che impedisce loro di costruire un’alternativa reale.

Alcuni, diceva Foucault, vogliono cambiare l’ideologia senza modificare le istituzioni: sostituire solamente le teste. Altri vogliono riformare le istituzioni senza cambiare l’ideologia. Quella che manca è l’incontro simultaneo tra ideologie e istituzioni. Per questo dobbiamo chiederci in che misura si impone, oggi e qui, quello che esprime con eloquenza Ali Abu Awwad, un giovane palestinese che guida un nuovo movimento nei territori occupati da Israele: “La pace stessa è la strada per la pace…e non c’è pace senza libertà”.

 

Il Messico non è Gaza

No, no lo è. Ma potrebbe esserlo. Esistono analogie scandalose che meritano considerazione. Non sarebbe utile riflettere su alcuni somiglianze raccapriccianti, come quella che sembra esistere tra i palestinesi in Israele ed i messicani in Arizona? O la sproporzione tra la forza militare/fisica di Israele e quella della Palestina e quella che esiste tra i corpi militari, polizia, paramilitari e parapolizie degli Stati Uniti e del Messico, da una parte, e la gente, dall’altra? E c’è qualcosa di più grave di queste analogie. La cosa più grave, là e qui, è il silenzio, l’abitudine: abituarsi a vedere con naturalezza l’insopportabile.

Molte voci esprimono, dentro lsraele, crescente preoccupazione per gli atteggiamenti che osservano nella loro società. Neppure riescono a risvegliarla gli orrori del recente libro che riporta le testimonianze dei saldati israeliani che hanno partecipato negli ultimi 10 anni all’occupazione della Palestina. “Quello che passa come normalità sotto l’occupazione”, segnala David Shulman, “è anche peggiore che negli anni di combattimento per il giogo incessante, quotidiano, disumanizzante. Chiunque leggerà questo libro vedrà il modo in cui l’occupazione si è trasformata in un sistema degradante di controllo… Ho constatato gli effetti devastanti della droga dell’abitudine… Ho visto come il male, inserito in un sistema ramificato e spesso impersonale, può scomporsi in piccole azioni quotidiane che, per molto ripugnanti che siano al principio, presto diventano routine” . 2

Non voglio mettere l’analogia al servizio del mio argomento. Forse, dopo l’Accordo, dagli schermi scompariranno gli spettacoli di violenza che sono andati aumentando. Si ridurrà la dose di droga. Forse, come hanno commentato flemmaticamente alcuni giornalisti dopo aver ascoltato il decalogo dei criteri editoriali, cambierà il linguaggio. Ora si dirà: “Due decapitati con poca violenza”. Oppure: “Gli asociali hanno smembrato gli arti della vittima che non ha sofferto”… Mi preoccupa che in qualche misura ci siamo abituati a quelle immagini di violenza. Ma mi preoccupa molto più che si sia fatta l’abitudine alla criminalizzazione dei movimenti sociali. I media si accanirono in alcuni aspetti della violenza ad Atenco o Oaxaca. Ma eludono od omettono sempre di più quella che si impiega quotidianamente in tutto il paese contro i più diversi movimenti sociali, ed in particolare quella che si è impiegata per anni in tutti i territori indigeni e contro le comunità zapatiste e che si è recentemente intensificata.

Mi preoccupa che questo silenzio non copra solamente i media ma abbracci già ampi settori sociali – perfino quelli che teoricamente difendono le cause popolari. Gli stessi che denunciano con risalto ogni gesto di Calderón o dei suoi rivali politici. Quelli che proclamano il loro impegno per la giustizia sociale o per il bene del paese e promettono di riportare quello che i neoliberali ci hanno tolto e portare molte altre benedizioni. Quelli che tracciano la loro linea rispetto alla repressione. Perché restano in silenzio davanti agli oltraggi costanti contro la gente ed i movimenti che dicono di difendere? Perché non denunciano, con lo stesso risalto, le repressioni e le aggressioni in cui incorrono i loro stessi colleghi e soci di partito e di governo? Perché ormai al potere adottano gli stessi comportamenti, incorrono nella stessa corruzione, proteggono la stessa impunità? Alla luce dell’esperienza, con quale autorità morale pretendono ora che si cancelli tutto e non si prenda in considerazione quello che è successo e continua a succedere in nome di una nuova illusione, di una semplice promessa?

Di questo passo, se invece di iniziative degne e conseguenti seguitiamo a intrattenerci con questi passatempi, non ci sarà nazione nella quale possa materializzarsi il sogno di un vago “progetto alternativo” che si continua ad alimentare.

“Vi auguro l’Egitto”, ha scritto alcuni giorni fa il palestinese Omar Barghouti. “Vi auguro la capacità di resistere, di lottare per la giustizia sociale ed economica e di ottenere la vostra vera libertà.

“Vi auguro la volontà e la capacità di uscire dalla vostra prigione camuffata con tanta cura. Nella nostra parte del mondo i muri delle prigioni sono troppo ovvi, dominanti, asfissianti. Per questo siamo ancora ribelli, preparandoci al giorno della nostra libertà. Quando raccoglieremo potere popolare sufficiente, romperemo le catene ossidate che hanno imprigionato per tutta la vita menti e corpi. Le celle della vostra prigione sono differenti. I muri sono ben nascosti, non sia mai che evochino la volontà di resistere. Non ci sono porte nelle celle della vostra prigione: potete spostarvi ‘liberamente’ senza riconoscere mai la prigione più grande nella quale siete confinati….

“Vi auguro l’Egitto per decolonizzare le vostre menti e fare a pezzi la scheda con la domanda: ‘che cosa volete?’, perché tutte le risposte che date sono sbagliate. Lì la vostra unica opzione sembra essere tra il male e il male minore.

“Vi auguro l’Egitto affinché, come i tunisini, gli egiziani, i libici, i bahreinesi, gli yemeniti, e certamente i palestinesi, possiate gridare: “No! non vogliamo scegliere la risposta meno brutta. Vogliamo un’altra opzione che non c’è nella vostra maledetta lista”. “Vi auguro l’Egitto affinché possiate collettivamente, democratica e responsabilmente ricostruire le vostre società, per restaurare le leggi affinché siano al servizio del popolo, non del capitale selvaggio e del suo esercito di banche; per farla finita col razzismo ed ogni tipo di discriminazione; per preservare ed essere in armonia con l’ambiente; per tagliare guerre e crimini di guerra e non posti di lavoro, prestazioni sociali e servizi pubblici; per abbattere il governo tiranno ed oppressore delle multinazionali, e per cacciare l’inferno dall’Afghanistan, dall’Iraq e da tutti i luoghi in cui, col pretesto di “diffondere la democrazia”, i vostri moralmente superiori crociati hanno sparso la disintegrazione sociale e culturale, la povertà abietta e la disperazione assoluta…

“La nostra oppressione e la vostra sono profondamente correlate e intrecciate… La nostra battaglia collettiva per diritti e libertà non è uno slogan, ma una lotta per la vera emancipazione e l’autodeterminazione, un’idea il cui momento è arrivato. Dopo l’Egitto toccherà a noi. È l’ora della liberazione e della giustizia per la Palestina. È ora che tutti i popoli di questo mondo, in particolare i più sfruttati ed oppressi, riaffermiamo la nostra comune umanità e recuperiamo il controllo sul nostro destino comune”.

 

Rese e resistenze

La lettera a don Luis descrive con precisione la situazione attuale in Messico e le prospettive. Voglio aggiungere un altro aspetto che permette di illustrare le risposte.

Felipe Calderón non ha saputo governare, ma può ancora distruggere e prosegue nell’azione che ha orientato le politiche ufficiali degli ultimi 30 anni: mettere il paese nelle mani del mercato, del capitale. Non c’è altra soluzione, sosteneva Salinas, che salire sulla locomotiva statunitense, anche se come camerieri. Per facilitare l’aggancio aprì al mercato la terra ejidale e comunale, e nella sua febbre privatizzatrice smantellò buona parte del settore pubblico.

Aggrappato a questa tradizione, Calderón ha messo in vendita quanto ha potuto ed ora deve consegnare la merce. Per esempio: ha ceduto in concessione quasi la decima parte del paese per 50 anni, e queste concessioni prevedono l’obbligo da parte del governo messicano di disfarsi della gente che abiti nei territori dati in concessione. Un altro affare sta nel demandarle se questo non avviene nei termini previsti. Ed i termini non si rispettano perché la gente resiste.

La resistenza incomincia di solito come lotta localizzata di un piccolo gruppo che cerca di proteggere le proprie terre e acque, ma presto incontra legami orizzontali e s’incatena a lotte simili in altre parti fino a formare ampie alleanze che si estendono in tutto il paese. Questa lotta racchiude una mutazione politica di grande trascendenza: rappresenta il passaggio dalla lotta per la terra alla difesa del territorio. Chi è riuscito ad ottenere un pezzo di terra che assicuri la sua sussistenza e mantenere il tessuto sociale comunitario, affronta in maniera organizzata la nuova sfida. Non difende più, o non solo, quel pezzo di terra. Esercita una forma di sovranità popolare in cui la difesa del suo territorio è anche la difesa della sovranità nazionale. Abbondano esempi di queste lotte specifiche che si collegano anche con alte simili, come quelle contro le dighe e contro molti megaprogetti. In tutti i casi è evidente il significato e le conseguenze della guerra descritti nella lettera a don Luis. La distruzione, a prima vista insensata, irrazionale, senza ragione, una distruzione che colpisce la natura ma ancor di più la gente che si occupa di essa e vive dei suoi frutti, acquisisce il suo senso ultimo nella ricostruzione – quando sono spariti il tessuto sociale e la sussistenza autonoma, e gli individui, uno alla volta, separati, restano esposti alla volontà del mercato, del capitale, alla schiavitù che questi impongono. “Che facciano i giardinieri in Texas o mettano su un negozietto”, diceva Fox quando gli domandavano che cosa avrebbero fatto quelli che il suo governo sgomberava. Anche quelli di Calderón se ne vanno dal paese, sono già sotto terra o sono “antisociali” – l’etichetta che le forze pubbliche appiccicano indistintamente a delinquenti e ribelli.

Oggi abbiamo bisogno della spinta che ci augura il palestinese Barghouti, quella che 17 anni fa ci permise di fermare la guerra di sterminio di Salinas ed oggi può fermare quella di Calderón e liberarci di lui. Ma non basterebbe disfarci delle classi politiche… per poi ricominciare di nuovo con la pratica elettorale, fosse anche con facce nuove. Cerchiamo un’altra trasformazione, una molto altra, più vicino e più lontano: vogliamo smantellare gli apparati politici ed economici della dominazione, invece di tentare di conquistarli con l’illusione di utilizzarli in maniera diversa; e vogliamo mantenere nelle nostre mani la transizione, per assicurare che sia l’inizio della nostra ricostruzione, non più della stessa cosa. E per quello che bisogna fare, adesso e dopo, abbiamo bisogno dell’etica critica.

 

Perché don Luis?

È utile domandarci perché gli zapatisti hanno deciso una corrispondenza pubblica col filosofo Luis Villoro richiamando nuovamente la nostra attenzione. Non si tratta più di estendere l’omaggio che gli resero a San Cristóbal. È che don Luis incarna, come molte poche persone, i temi che gli zapatisti considerano urgente esaminare. Esprime in pieno il rapporto tra etica e politica.

Negli anni ’90 scrisse El poder y el valor: Fundamentos de una ética política, un libro che segue e culmina la sua opera. Aveva vissuto, come filosofo, nel seno della ragione sul cui dominio ha confidato l’Occidente negli ultimi due secoli – quella che concepì “il progetto storico di rompere con la dominazione e la miseria e di raggiungere, finalmente, una società liberata e razionale, degna dell’uomo”. Invece di arrendersi al fallimento di quella ragione e la sua sequela di conformità e delusione, don Luis tentò una riflessione innovativa. “È ancora possibile – si domandò – un comportamento politico che proponga di contrastare il male? Si potrebbe rinnovare, davanti alla delusione, una riflessione etica?… È inevitabile l’opposizione tra la volontà di potere e la realizzazione del bene? Come si può articolare il potere col valore?”. Il libro risponde radicalmente a queste domande: “È un progetto di riforma del pensiero politico moderno, con la speranza di contribuire, in questa triste epoca, a scoprire i ‘mostri della ragione’ che hanno devastato il nostro secolo”.

Don Luis ha sofferto e goduto, come tanti di noi, la scossa del 1994 – quella che mosse il mondo intero, come riconoscono oggi tutti i movimenti antisistema. Da allora ha accompagnato gli zapatisti, vicino o lontano a seconda delle circostanze. Fu loro consulente nei negoziati col governo, nel 1996, e fu uno dei tre che si sedettero al tavolo principale in cui si giunse ai principali accordi. Soffrì come pochi la conclusione – che non dobbiamo dimenticare. Siamo nel 10º anniversario della Marcia del Colore della Terra, alle cui riunioni parteciparono circa 40 milioni di messicani. Migliaia di organizzazioni, a nome di milioni di persone, appoggiarono l’iniziativa di riforma costituzionale concordata con la commissione del Congresso, la Cocopa. Non ci fu una sola organizzazione, una sola, che si oppose. Ma il Congresso produsse una controriforma infame e la Corte Suprema, ovviamente, se ne lavò le mani.

Il culmine dell’opera di don Luis, in quel libro ed in altri testi, riflette la sua stessa trasformazione. Trovò ispirazione negli zapatisti e nelle comunità indios e lì scoprì l’alternativa che stava cercando. Trasformandosi, don Luis ci trasforma: la sua lucida riflessione apporta elementi centrali a quello che oggi manca. L’utopia si è fatta realtà nel presente, ci dice dal 2009; ha già posto in questo mondo, nelle comunità zapatiste. La democrazia non può stare in un luogo diverso da quello in cui sta il popolo, affermò, ed osservò “un’inversione dei rapporti di potere esistenti” e “l’abolizione di ogni dominazione dall’alto” nell’azione comunitaria che riorganizza la società dal basso, nella propria geografia, nel proprio calendario…

“Il desiderio di autenticità”, insiste don Luis, “è l’impulso a liberarsi dell’oppressione della farsa”. Della farsa, dice; la farsa. La ragione che risponde a quel desiderio scopre i veri valori, e così “assumono primato quelli che integrano la dignità insostituibile della persona: libertà, autenticità, responsabilità, uguaglianza”. E non dimentichiamo le ultime parole di quel libro eccezionale: si tratta di “compiere il proposito dell’amore: realizzare sé stesso per l’affermazione dell’altro”. Oltre ogni farsa.

Tra interminabili risse e circhi mediatici, aggrappati alle loro poltrone, le classi politiche continuano a lacerare il tessuto sociale e distruggere la natura fino a minare le basi stesse della sopravvivenza. E’ una strada senza uscita. È inutile, profondamente immorale continuare a percorrerla. Dobbiamo uscirne. E questo esige, innanzitutto, impegnarci seriamente nella riflessione, nella critica, nell’etica. Con integrità. Seguendo le orme di don Luis e la nuova convocazione degli zapatisti.

San Pablo Etla,

marzo 2011

 

Note:

1 Tomo della rivista Conspiratio, 2, nov.-dic. 2009, citazioni di Pietro Ameglio, Iván Illich e Jean Robert.

2 David Shulman, “Israel & Palestine: Breaking the Silence”, The New York Review of Books, LVIII-3, February 24-March 9, 2011, p.43

 

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

Versione in castigliano http://revistarebeldia.org/revistas/numero77/10esteva.pdf

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intervento epistolare di Raul Zibechi

Scambio epistolare su Etica e Politica

L’etica ha bisogno di un luogo altro per mettere radici e fiorire

Raúl Zibechi

Febbraio 2011:
Don Raúl: Saluti. Abbiamo letto alcuni dei tuoi ultimi scritti e pensiamo di essere in sintonia. Per questo vogliamo invitarti ad unirti e a portare il tuo contributo sul tema Etica e Politica.
Un abbraccio. SupMarcos

Su invito del SCI MArcos, dall’Uruguay, Raúl Zibechi si unisce con questa lettera allo scambio epistolare su Etica e Politica.

Lettera all’EZLN


Marzo 2011
Per: Subcomandante Insurgente Marcos – Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale.
Da: Raúl Zibechi.
Un abbraccio alle compagne e ai compagni zapatisti da questo angolo del continente sudamericano. E un abbraccio di cuore a quelle bambine e a quei bambini che subiscono la guerra dell’alto, quella guerra alla cui direzione vanno alternandosi conservatori e progressisti, destre e pseudo sinistre che in comune hanno la propria avversione – e timore- a tutti quelli che stanno in basso. Che solamente vengono considerati come masse passive nei loro cortei, che adesso chiamano manifestazioni, e soprattutto nel sacrosanto giorno in cui si accorre alle urne.
Man mano che il mondo, il nostro continente e i nostri differenti modi di stare in basso sono sempre più colpiti dalle molteplici guerre di quelli in alto – la guerra della fame a causa della speculazione sugli alimenti, la guerra del silenzio informativo per cancellarci, la guerra delle politiche sociali per addomesticarci, e la guerra-guerra di pallottole e cannoni per eliminare ammazzando – diventa urgente tracciare “frontiere” tra i più svariati “noi” e “loro”, anche a rischio di trovarci con qualche sorpresa sgradita.
Di fronte ad ogni salto in avanti della rivolta mondiale di quelli in basso, quando moltitudini armate di pietre si scontrano con elicotteri d’attacco e cacciabombardieri, arriva il momento di chiedersi: da quale parte? con chi? Domande a cui si può solo rispondere con il cuore e il più elementare senso di solidarietà umana, anche se tutti i giorni vediamo quelli che occupano i piedistalli in alto fare calcoli di guadagni e perdite, con mediocri motivazioni utili a spiegare qualsiasi cosa perché alcune parole, come diceva León Felipe della giustizia, valgono di meno, infinitamente meno della piscia dei cani.
Quando migliaia e i milioni di persone conquistano le strade, come fecero nel gennaio 1994 in Messico e al Río de la Plata nel dicembre 2001, non bisogna far altro che festeggiare, accompagnare, lasciare le faccende del momento e uscire con loro condividendo allegria e dolore. “E dopo?”, era la domanda che ci facevano a bruciapelo intelligenti analisti e dirigenti di sinistra. Dopo, non si può sapere. L’unica cosa che possiamo dire è: adesso, e basta.
Mentre le acque sono calme, i margini per la speculazione si allargano fino a diventare oceani di discorsi; parole e ancora parole possono essere pronunciate una dopo l’altra, una e un’altra volta, perché non sono legate a fatti, azioni, decisioni, impegni. Sono, diciamo, parole. Come quelle del politico in alto, che rispondono al capriccio e all’interesse individuale.
Ma quando le acque si increspano, quando le onde esplodono in mareggiata, niente resta al proprio posto. I tempi per il calcolo e la speculazione lasciano il passo a risposte quasi automatiche, ed è lì dove ciascuno risponde secondo i valori che ha coltivato man mano. Nelle crisi, come nei naufragi, ci sono solo vie d’uscita collettive, per il semplice fatto che l’opzione individuale non contiene tutti. Questa è la prima lezione che stanno rispolverando le ribellioni che scuotono il mondo.

Un sistema in disfacimento


Possiamo fare tutti gli sforzi intellettuali necessari a comprendere quello che sta accadendo nel mondo. Raccogliere dati, classificarli, analizzarli, rapportarli, sottoporli a verifica, e così via fino a circoscrivere alcune ipotesi su ciò che chiamiamo crisi sistemica, che assomiglia sempre più a un caos sistemico.
Come capire la crisi del sistema? Dicono che ci sono leggi economiche che mostrano tendenze e segnali inequivocabili del fatto che stiamo entrando in un periodo nel quale il capitale incontra limiti per la sua accumulazione. E ci sono altre teorie che dicono che la caduta del capitalismo è inevitabile e che il mondo unipolare, cioè il mondo basato sull’egemonia di un solo paese, gli Stati Uniti, non è più sostenibile.
Secondo alcuni, e possiamo sbagliarci, quella che chiamiamo crisi sistemica, non è né più né meno che un Ya Basta! collettivo, contundente e generalizzato di quelli in basso in tutti gli angoli del mondo. Crisi è: quando donne e giovani, bambini e bambine, contadini e operai, indigeni e studenti, non non tollerano oltre e le loro battaglie si fanno così forti che quelli in alto, i padroni del capitale, cominciano a portare i soldi in posti più sicuri. E quello che provocano è un casino gigantesco nel quale i capitalisti giocano a togliersi i soldi l’un l’altro, perché quelli in basso non si lasciano più derubare e sfruttare tanto facilmente.
Giovanni Arrighi e Beverly Silver, nel loro lavoro che abbraccia cinque secoli di storia del capitalismo, “Caos e governo del mondo“, dicono che questa crisi ha una caratteristica ben diversa da tutte quelle precedenti. Adesso la lotta di quelli in basso è così potente che da sola fa entrare in crisi il sistema. Così è successo in tutta l’America latina dal Caracazo del 1989 fino alla seconda guerra del gas in Bolivia nel 2005 e alla comune di Oaxaca nel 2006. Non sono state le “leggi oggettive” a mettere in crisi la forma di dominio, ma le persone nelle strade che hanno sconvolto il modello neoliberista.
Ciò che chiamiamo crisi sistemica sembra un uragano che ci colpisce tutti e tutte. Non c’è popolo o gruppo sociale che sia al sicuro, e molti degli strumenti che hanno saputo costruire nel corso dei secoli di resistenza sono diventati inutili. Non solo le prime organizzazioni “storiche” di quelli in basso, ma anche una parte delle più giovani, i cosiddetti movimenti sociali si sono trasformati poco a poco in obiettivi essi stessi, in gruppi guidati dalla logica della sopravvivenza. Per inerzia o per quel che sia, una parte di quanto inventato per resistere non sta servendo a resistere in questo periodo in cui tutto si scompone. Perfino il nostro mondo si sta disgregando. Per questo siamo costretti a reinventare i nostri attrezzi di resistenza e i nostri mondi.
Che dire delle teorie, le ideologie, le analisi scientifiche. Le previsioni dei “narratori” sociali e politici assomigliano a quei bollettini meteorologici dove l’unica cosa cosa che azzeccano è dire a che ora spuntano il sole e la luna e tutto il resto è incerto. I “narratori” sociali, come si addice, non si fanno carico dei propri pronostici. Non mettono il corpo insieme alle analisi.
Cosa fa un marinaio quando le mappe di navigazione si mostrano sbagliate, quando le bussole e gli orologi e i sestanti non segnano più con la precisione di un tempo? E cosa fanno i ribelli sociali quando non ci si può aspettare più niente dallo Stato e dalle istituzioni, dai partiti e dalle organizzazioni che parlano di cambiamento e rivoluzione ma in realtà stanno cercando il miglior modo di accomodarsi in questo mondo?
Possiamo confidare nell’etica come supporto e guida dei nostri movimenti, delle nostre scelte e come machete per aprire sentieri?

È possibile unire etica e politica


Gli zapatisti propongono di aprire un dibattito su etica e politica. “È possibile portare l’Etica nella guerra?”, ci chiede il Subcomandante Insurgente Marcos nella sua lettera a Luís Villoro. Possiamo allargare la domanda alla politica. Etica e politica possono andare assieme? La risposta non è così evidente.
Come sarebbe? C’è chi pensa di mettere qualche dose di etica in qualcuno dei partiti che occupano ministeri? E alla Camera dei deputati e dei senatori? Quanta? Fino a riempire quante pagine di discorsi? Quale dovrebbe essere la dosi necessaria di etica per rimuovere decenni di pratiche guidate dal calcolo meschino dei benefici quantificati in incarichi, viaggi e compensi straordinari? È evidente che là in alto l’etica è il convitato di pietra o argomento di conversazione. Sono due dimensioni che vivono in mondi diversi e che non possono dialogare né capirsi.
Una notte fredda del 1995, il comandante Tacho si rivolse alla folla nella piazza di San Andrés per spiegare quello che avevano discusso quel giorno con i rappresentanti del governo durante alcune trattative che alla fine sfociarono negli Accordi di San Andrés. “Ci hanno chiesto di spiegare cos’è la dignità”, disse, provocando un terremoto di risate. Con l’etica accade qualcosa di simile. È o non è, ma non può essere spiegata, anche se ho visto intere biblioteche di libri con la pretesa di analizzarla.
L’etica ha bisogno di un luogo altro per mettere radici e fiorire. E quel luogo è in basso e a sinistra, lì dove è nato poco a poco un altro modo di fare politica, dove la parola è intrecciata alla vita e la vita è fatta di realtà che fanno male, né grandi né piccoli, le realtà quotidiane di quelli in basso. Questa politica altra, quella che nasce nel sottosuolo per restarci, la politica che non cerca scale per arrivare in alto ma ponti per arrivare ad altri in basso, e con tutti quelli in basso cerca di costruire un mondo diverso, questa politica è etica, e solo lei può esserlo.
La barca della politica dell’alto, che è la stessa politica di quelli che vogliono arrivare in alto, vicino al timone ha un bussola enorme che punta sempre verso un nord che si chiama pragmatismo o realismo. Che è l’arte di giocare con gli elementi esistenti, con la “correlazione delle forze” (il frustino più usato delle sinistre in alto), con la reale realtà. Il pragmatico e realista misura con maggiore esattezza la congiuntura, la sventra per levarle tutto il succo possibile, per giocare con lei il gioco di sistemare le pedine degli scacchi sulla scacchiera per i propri interessi nel miglior modo possibile. (Si noti che il politico in alto non fa differenza tra politica ed economia, e utilizza gli stessi concetti in entrambi gli ambiti).
Il politico pragmatico e realista, quando si sollevano i popoli, quando contro i proiettili e i cannoni del tiranno ci mettono il corpo, non si turba per il sangue sparso. Si limita a calcolare a chi può beneficiare e a chi nuocere la caduta del tiranno e il trionfo degli insorti.
Fa i suoi calcoli, con lo stesso fervore e la stessa ripugnante indifferenza con cui conta i voti elettorali.
Rinuncia, per tanto, a creare un mondo nuovo. Che non può essere la semplice disposizione delle pedine esistenti, ma un’altra cosa, un altro gioco. Amministrare le cose che esistono, giocare con le pedine del sistema, implica l’accettare le regole del sistema e quelle regole si chiamano, in secondo luogo, elezioni. In primo, sottostare alla violenza dell’alto, quello che chiamano monopolio-della-violenza-legittima. (Gli zapatisti lo subiscono quotidianamente, è violenza tout court, e non vale la pena dilungarsi ora). La politica altra, la politica etica, rifiuta le pedine e le regole del gioco che vuole farci giocare la politica dell’alto.
Con quali pedine la politica altra prepara il gioco del nuovo mondo?
Nella politica altra, la politica dal basso e a sinistra, non ci sono pedine né gioco, a meno che metterci il corpo si chiami gioco.

Etica è metterci il corpo


Gli zapatisti dicono che il pensiero critico è stato rinviato, nuovamente, dall’urgenza dei calcoli del momento. Al suo posto guadagna spazio il marketing elettorale. Pensare criticamente non è altro che pensare contro se stessi, contro quello che siamo e facciamo; non per smettere di essere e fare, ma per crescere e avanzare. Il pensiero critico non può adeguarsi al luogo cui è arrivato, per quanto interessante esso sia.
Adesso le sinistre e gli “intellettuali Petrobras” (quelli che si fanno finanziare i libri dalle multinazionali progressiste e stampano il logo dell’azienda sulla quarta di copertina), si dedicano ad abbellire le supposte realizzazioni dei governi progressisti. Il loro “pensiero critico” è più che curioso: criticano l’imperialismo del Nord, come se al Sud non esistesse, e l'”estrema sinistra” che, dicono, lavora per le destre. Intere popolazioni sono state soggiogate da Petrobras, così avida di profitti da voler diventare la prima compagnia petrolifera del mondo (già è la seconda). Questi intellettuali parlano di pensiero critico ed emancipazione, come se non sapessero che le aziende che li finanziano sono macchiate di sangue.
Per noi il pensiero critico è sempre stato e sempre sarà autocritica. È il modo di levigare quello che siamo, di migliorarci, di farci migliori, più veri. Non siamo mai soddisfatti di quello che facciamo perché vogliamo sempre andare oltre. Non per smania di perfezionismo né di risalto. Quelli in basso hanno bisogno di quel motore che è la critica/autocritica perché non possono adeguarsi al posto che occupano in questo mondo. Non è un pensiero scientifico nel senso accademico, perché non viene convalidato da altri accademici ma dalla gente comune, quelli in basso organizzati in movimenti.
Il pensiero critico è un pensiero in transito, che non ha vocazione per ancorarsi ma per stare in movimento, non solo con i movimenti. Non è fine a se stesso, perché deve servire ai più per la loro resistenza sempre impegnata ad affrontare nuove sfide. Se no che senso ha il pensiero? Non si aggrappa alle idee che ha formulato in un determinato momento, è disposto a modificarle perché non vuole avere ragione per essere più di altri, ma con tutti.
È un pensiero a cielo aperto, nasce e cresce e sente vicino agli spazi delle resistenze. Non trova posto nelle accademie e negli uffici riscaldati/condizionati, e non dipende da bilanci. Se è vero, se è sincero e impegnato, insieme alle idee e ai ragionamenti ci mette il corpo. Non pensa e invia altri al fronte, come i generali codardi degli eserciti che spendono milioni di dollari in droni, quegli aerei senza pilota che radono al suolo villaggi evitando ogni rischio per la vita di chi attacca. Per chi fa la guerra, è un videogioco: i droni vengono manovrati sugli schermi da un altro continente, per adesso gli Stati Uniti. Per chi la subisce, è il genocidio impersonale.
Il pensiero critico, che è un pensiero etico, non può essere un videogioco dove il politico mette le idee e gli altri il corpo.
Nelle ultime pagine del romanzo di Alejo Carpentier, “Il secolo dei lumi“, Sofia si lancia nelle strade di una Madrid insorta contro le truppe di Napoleone, il 2 di maggio 1807. Esteban cerca di fermarla perché sarebbe stata morte certa: cannoni e fucili contro urla e coltelli. Entrambi uscivano sofferenti dal tradimento degli ideali della Rivoluzione Francese:
– Andiamo là!
– Non essere stupida: stanno mitragliando. Non ci farai niente con quei ferri vecchi.
– Resta se vuoi. Io vado!
– E per chi vai a combattere?
– Per quelli che si sono buttati nelle strade! Bisogna fare qualcosa.
– Cosa?
– Qualcosa!

L’etica come pensiero critico e viceversa


Per navigare a favore di corrente, per lasciarsi trasportare senza sforzo, non serve né pensiero critico né etica. Che senso possono avere la critica e l’etica se tutto consiste nel seguire la corrente? Se il sentiero è già tracciato, come dice la canzone di un amico uruguayano, e non resta che seguirlo, e in più è in discesa, la critica è un impiccio e l’etica, al massimo, un ornamento. La critica ci spinge ad uscire dal sentiero, a cercare pendenze scoscese, a entrare nel fango fino alle orecchie. L’etica non può fare compromessi con il conformismo.
Lo stesso può essere detto di quelle pratiche politiche condotte da dirigenti che concentrano tutto il sapere e il potere e che devono essere seguiti ciecamente. Chi abbia conosciuto da vicino l’esperienza di Sendero Luminoso in Perù, ha potuto constatare che la relazione tra i capi “rivoluzionari” e i militanti di base riproduceva fedelmente la relazione verticale e autoritaria tra i proprietari terrieri feudali e i loro braccianti. Lì non c’è mai stato cambiamento ma mera riproduzione di relazioni di oppressione, basate sul “partito d’avanguardia” i cui timonieri navigavano sospinti dal vento della storia.
“Nulla ha corrotto la classe operaia tedesca come l’idea che essa nuota con la corrente”, scrisse Walter Benjamin nelle “Tesi sulla Storia”. Le donne e gli indigeni, che non erano contemplati in quella Storia grande, hanno fatto il loro cammino contro corrente e per questo si sono trasformati nei soggetti delle proprie vite. Sarà che la politica elettorale è fedele erede di quella tradizione conformista in cui non serve metterci il corpo ma un foglio nell’urna ogni quattro cinque anni?
Nella frase di Benjamin il soggetto non è “essa”, la classe operaia, ma la corrente storica, così come in altre esperienze è il partito o il capo supremo. L’infallibile. Quelli che come me vengono dall’esperienza marxista/maoista ne sanno qualcosa. I soggetti non sono mai stati i contadini in carne ed ossa ma il Grande Timoniere, il Libretto Rosso (o era verde?) o la dirigenza superiore. La gente comune, quella che chiamiamo sempre massa, era quello: materiale blando modellabile dalla dirigenza e/o dalla linea corretta. Nella massa non abbiamo mai saputo vedere persone, non è mai apparso un Vecchio Antonio o una bambina di nome Patricia, uomini e donne veri con pensieri, tradizioni, identità, con le quali potessimo dialogare e dalle quali imparare. I pochi nomi propri che compaiono nei principali racconti del Grande Timoniere, sono personaggi stranieri o ben altri dirigenti dell’alto. Mai la persona comune, mai quelli in basso.
Di conseguenza, ci siamo dedicati a seguire i passi dei “grandi”, di quelli veramente importanti, dei capi storici (maschi, istruiti, abili nel maneggiare la parlata corretta). Ogni frase dei dirigenti era letta e riletta fino a cavarne un senso straordinario, ogni gesto veniva studiato, ogni fotografia scandagliata e quell’esercizio – guardare sempre verso l’alto – ci ha accorciato la capacità di vedere, ascoltare, sentire l’allegria e il dolore di quelli in basso. Di tutti quelli che non avevano un discorso pulito, che non frequentavano i luoghi e le forme del potere. Essi ed esse erano tanto invisibili per i “rivoluzionari” quanto lo erano stati per i funzionari imperiali. (Se mi inoltro in questa tradizione non è perché sia eccezionale, ma perché fa male, ferisce, e mantenerne vivo il dolore è l’unica forma che conosco per non ripeterlo).
Questa dolorosa tradizione arriva fino ai nostri giorni e assume forme molto più raffinate e cortesi, impersonali e scientifiche. Tra gli accademici: cifre e dati oggettivi che nascondono gli esseri umani dietro grafici e statistiche. Non c’è qualcosa in comune tra tutti i modi di fare e di pensare che nascondono il dolore umano?
Se è certo, come dice Benjamin, che la vita quotidiana degli oppressi è uno “stato d’eccezione” permanente, e per constatarlo basta andare in una comunità indigena o in qualsiasi quartiere povero di qualsiasi periferia urbana latinoamericana, sorge un imperativo etico. Non è più possibile pensare criticamente fuori dallo stato d’eccezione, lontano dal luogo dove viene esercitato il potere nudo della violenza fisica. Per prendere distanza, per parlare in nome di quelli in basso, sono state create le agenzie per lo sviluppo. Più in là, il pensiero critico nascerà nelle condizioni che ci vengono imposte dallo stato d’eccezione, o non sarà pensiero critico.
Diranno che così si perde il distacco necessario per poter esercitare la critica. Qui c’è una differenza fondamentale, che è inerente al modo con cui si elabora la conoscenza: da dove e in quali circostanze si parla, si pensa, si scrive. Ci sono due opzioni. O quelli in basso sono un pretesto perché altri facciano politica o elaborino tesi, oppure entrambe si sviluppano in minga, lavoro comunitario, con quelli in basso. “Non vogliamo continuare ad essere le vostre scale”, gridano gli aymara boliviani ai politici dell’alto; a quelli di destra, a quelli di sinistra e adesso anche ai politici “plurinazionali”, l’ultima fauna nata per parassitare i movimenti.
La maggiore ambizione che possiamo avere come militanti, pensatori, scrittori, quel che sia… è smettere di essere quello che siamo. Che gli altri ci superino, ci sorpassino, che diventando pensatori collettivi, scrittori collettivi, militanti che comandano obbedendo, “annullino il terreno della loro realizzazione”, come dice la lettera a don Luís Villoro. Quale gioia più grande di un pensiero che lanciato al vento arrivi a rappresentare i collettivi più disparati, i quali lo amplificherebbero, arricchirebbero e modificherebbero fino a far diventare irriconoscibile la sua origine, diventando così patrimonio di tutti e tutte!
Lascio alcune idee disordinate, scritte al calore della rabbia che provoca l’impotenza di constatare come la ribellione dei popoli cerca di essere negoziata sul mercato degli interessi geopolitici.
Salute agli indigeni del Chiapas che ci insegnano che la paura può essere vinta collettivamente.

Raúl Zibechi
Montevideo, marzo 2011.

(traduzione a cura di rebeldefc@autistici.orghttp://www.caferebeldefc.org/)

.pdf dell’intervento di Zibechi in castigliano qui: http://revistarebeldia.org/revistas/numero77/09zibechi.pdf

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serata a Pavia sul diSagio pSichico

serata Pavia

‘Quando la dignita”
diventa follia’
Serata di approfondimento Sul trattamento
del diSagio pSichico
con la partecipazione Straordinaria di:
Sabatino catapano
preSentazione del libro ‘il SopravviSSuto’
con drammatizzazione teatrale
a Seguire proiezione del documentario
“Quando la dignita” diventa follia
la Storia di Sabatino catapano’
e ricordo di franco maStrogiovanni
DOMENICA 15 MAGGIO
DALLE ORE 19 APERITIVO E CENA
COMMONS – VIALE BLIGNY 83 PAVIA
Per prenotazioni ed info: 3385672125

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lezione e speranza

Una lezione e una speranza

Luis Villoro

 

Per il Subcomandante Insurgente Marcos

da Luis Villoro

 

Febbraio 2011

Ho accettato con piacere e interesse questo scambio di scritti. Condivido la preoccupazione per la situazione che attraversa il nostro paese ed ammiro, da tempo, quello che sta facendo il movimento zapatista.

Nel 1992, due anni prima della sollevazione zapatista, ho avuto l’opportunità di scrivere un libro dal titolo El Pensamiento Moderno. Filosofía del Renacimiento, edizioni del Fondo di Cultura Economica. Rileggendolo ora, ho trovato grandi affinità con quello che l’EZLN avrebbe detto e fatto più avanti, e questo conferma le nostre coincidenze fin dall’inizio. Quello che allora pensavo oggi è diventato ancor più pertinente ed urgente che mai: l’etica e la giustizia devono stare al centro della vita sociale. Non dobbiamo permettere che politici di tutto lo spettro ideologico le espellano da lì e le trasformino in mere frasi da discorso.

Incomincerò in primo luogo a menzionare la situazione attuale: il dominio del capitalismo mondiale. Questo controlla, con alcune eccezioni, le politiche economiche che determinano la vita delle grandi maggioranze così come i mezzi di comunicazione che vogliono giustificarle. Esprime, insomma, un pensiero di dominazione.

Si tratta, in effetti, di una guerra stabilita dal potere. Si suppone sia diretta contro il narcotraffico e contro il crimine organizzato, ma è una guerra di chi detiene il potere economico senza altro progetto che accrescere i guadagni del capitale.

Guerra dall’alto, morte in basso, come lei afferma. Si esprime in un pensiero di dominazione che potrebbe condurre effettivamente alla distruzione del tessuto sociale, essenza di ogni società.

Questa è, in sintesi, la situazione mondiale. Tuttavia, possiamo segnalare luoghi in cui si scorge l’inizio di una strada verso un mondo migliore. È questa una delle principali ragioni per cui la sua esperienza continua ad essere tanto importante. Lì, in Chiapas, a partire da antiche radici indigene, dalla cosmovisione e dai vostri particolari modi di nominare il mondo, voi avete dimostrato la possibilità di realizzazione anche di valori opposti. Mentre nel capitalismo vige l’individualismo (i sacrosanti diritti individuali) in questa alternativa sorge un altro tipo di valori: valori comunitari che rispettano la persona nella sua individualità e si realizzano in una comunità. Si manifesta così, in tutta chiarezza, “l’etica del bene comune”.

In queste piccole comunità, nel sudest messicano, esiste una nuova organizzazione politica: le cosiddette “Giunte di Buon Governo” (JBG) che cercano di realizzare valori etici differenti ed anche opposti a quelli del capitalismo. Sono valori collettivi basati sull’idea di comunità o comunanza. Di fronte all’individualismo occidentale moderno propizia la proprietà comune che prospera rispetto alla proprietà privata.

Ci dà una lezione anche in ordine giuridico: rispetto alla punizione con la prigione opta per l’assegnazione di un lavoro a beneficio della comunità per scontare la pena, a differenza della reclusione nelle nostre società.

Insomma, contro l’individualismo moderno, si potrebbe ricorrere ad un’altra tradizione precedente già esistente in Indoamerica, la tradizione comunitaria. Questo è un esempio che un altro mondo è possibile rispetto alla modernità occidentale.

Un altro esempio che segna una differenza sostanziale con l’Occidente, per quanto si riferisce ai valori, è la vostra gestione di concetti contrari come vincitore-vinto, buono-cattivo, ecc. Lo spiega molto bene il paradosso della guerra zapatista che lei, Sup Marcos, segnala alla fine del suo scritto e che mette in chiaro che l’obiettivo non è vincere distruggendo il nemico, perché, in realtà, nelle guerre non si può parlare di vincitori o vinti poiché, dal punto di vista umano, per le morti, il sangue versato e la distruzione materiale, entrambe le parti risultano perdenti.

Senza parlare dei sopravvissuti. Come lei dice: “La chiave è nel fatto che la nostra è una guerra che non vuole distruggere l’avversario nel significato classico. È una guerra che vuole annullare il terreno della sua realizzazione e le possibilità dei contendenti (noi compresi)”.

Con riferimento al tema dello Stato nazionale, la cui crisi si avvertiva già da decenni – come dico a pag.153 del mio libro qui citato – “era chiaro che i problemi planetari di allora superavano la sua capacità di risolverli e, d’altra parte, non riusciva ad affrontare le complesse domande delle diverse e particolari comunità, come la crescente attività di nazionalità, etnie, comunità e gruppi sociali che affermavano la propria identità ed esigevano il diritto della diversità dentro l’uguaglianza” (parole, quest’ultime, che mostrano un’indubbia affinità coi postulati zapatisti).

“Con ciò si annunciava un cambiamento profondo nel modo di considerare il posto dell’uomo nell’ordine sociale, che non si delineava più come risultato della volontà maggioritaria di individui uguali, bensì dalla interrelazione complessa tra comunità e gruppi eterogenei. Il potere politico sarà giustificato se sancirà, insieme all’uguaglianza, la differenza.” (Idem)

In quanto al tema tanto reiterato dei “diritti umani che condensano il diritto di ogni persona a realizzarsi pienamente, sembrano ignorare che la persona non può realizzarsi in solitudine; quindi implicano il riconoscimento dei valori specifici di ogni gruppo e comunità; implicano, per esempio, il diritto delle etnie allo sviluppo autonomo della propria cultura e dei propri stili di vita” (pag.154), esattamente il motivo che ha dato luogo alla storica marcia del colore della terra nel 2001, la cui sfortunata e vergognosa conclusione anche lei menziona nella sua missiva.

Tuttavia, gli indiscutibili progressi che abbiamo potuto vedere nelle nostre diverse visite ai Caracoles zapatisti (sedi delle JBG) dal 2003, frutto dell’esercizio della propria autonomia applicata ai campi dell’educazione, salute ed auto-governo, dimostra che un altro tipo di relazione umana è possibile dove governano la fraternità, il rispetto e la fiducia. E dove è possibile esercitare un altro tipo di democrazia più autentica: la democrazia partecipata, tanto distante da quella rappresentativa che noi conosciamo.

In quanto ai processi elettorali ed ai partiti politici, posso dire che non ho nessuna fiducia. Dato che si tratta di etica e giustizia e che è necessario incarnare i valori che ci sostengono, non posso depositare la mia speranza in chi lotta indefinitamente per i suoi piccoli pezzi di potere e tralascia ogni impegno serio di occuparsi del bene comune.

I risultati prima menzionati nella zona zapatista – ed in particolare tra la gioventù – mostrano una realtà assolutamente diversa da quello che i mezzi di comunicazione vogliono mostrarci col loro silenzio circa questo movimento che ha risvegliato un’impressionante solidarietà internazionale. Conosciamo bene la continua distorsione con cui informano e con la quale occultano la costante persecuzione rivolta contro le comunità e basi di appoggio, col fine di modellare l’opinione pubblica e cancellare la sua capacità critica.

Fortunatamente con la tecnologia moderna, sono sorte alternative che stanno cambiando questa realtà: dalle reti sociali fino alle radio comunitarie, impegnate nel portare alla luce quanto taciuto e manipolato dai media di massa, che promettono il recupero del pensiero critico che oggi sembra relegato ad un stato di eccezione.

Infine, posso dire che resta una lezione ed una speranza a chi ha avuto l’opportunità di seguire da vicino la resistenza zapatista negli ultimi 17 anni, così come la trasformazione che hanno apportato nel loro territorio a partire dalla loro autonomia per costruire comunità fraterne dove la paura, che oggi invade l’intero paese, non ha possibilità. Questo costituisce una voce di speranza in momenti come gli attuali in cui il degrado e la violenza sembrano aver offuscato il nostro panorama.

Saluti e avanti.

Luis Villoro

http://revistarebeldia.org/revistas/numero77/07villoro.pdf

 

Contributi allo scambio epistolare al link http://chiapasbg.wordpress.com

 

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messico: reclamo di pace con giustizia e dignità

http://matteodean.info/2011/05/08/messico-il-reclamo-di-pace-con-giustizia-e-dignita/

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prime foto e video manifestazione san cristobal

http://chiapasdenuncia.blogspot.com/2011/05/marcha-por-la-justicia-y-contra-la.html

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incontro nazionale rete educazione libertaria

Terzo Incontro Nazionale della Rete Educazione Libertaria

7 aprile 2011.Appuntamenti, Eventi. Nessun Commento.


L’incontro annuale della Rete Educazione Libertaria si terrà quest’anno a Roma, presso “La Villetta” all’angolo tra via Armatori e via Francesco Passino 26 – Metro B – fermata Garbatella. Ci troveremo per due giornate di confronto riflessione e discussione su argomenti e problematiche relativi all’educazione libertaria.

L’appuntamento è fissato per sabato 14  alle 15.30 per finire domenica 14 Maggio 2011 nel pomeriggio.

E’ prevista una quota di iscrizione di 5 euro da versare direttamente il giorno dell’incontro (c’è inoltre la possibilità di pranzare presso la struttura con il contributo aggiuntivo di euro 10 . Organizziamo anche uno spazio gioco per bambini.)

PER PARTECIPARE E’ NECESSARIA L’ISCRIZIONE.
Per iscriversi compilare il modulo online -> CLICCARE QUI.
Per ragioni organizzative è necessario inviare l’iscrizione
ENTRO SABATO 7 MAGGIO 2011.

 


PROGRAMMA DELL’INCONTRO

Sabato 14 maggio

  • ore 15.30: Accoglienza partecipanti
  • ore 16.00: Benvenuto e presentazione dei lavori (a cura del coordinamento romano)
  • ore 16.15: Introduzione di Francesco Codello (Dirigente scolastico di Treviso, animatore per l’Italia dell’International Democratic Education Network e autore, tra l’altro, di “La buona educazione” ed. Franco Angeli” e “Vaso, creta o fiore?” ed. La Baronata.
  • ore 16.45: Intervento di Ute Siess – Scuola Democratica “Kapriole“ di Friburgo: “Educare nella libertà: dalla Germania al Perù
  • ore 18.00: Spazio aperto per domande e riflessioni
  • ore 19.00: Conclusioni della giornata e presentazione del programma di domenica

Dalle ore 16.00 alle ore 19.00 è previsto uno spazio gioco per bambini

Domenica 15 maggio

  • ore 9.00: Accoglienza partecipanti
  • ore 9.30: Introduzione all’educazione libertaria. A seguire: presentazione dei gruppi di lavoro.
  • ore 10.00: Avvio dei gruppi di lavoro:
    • Dall’ Italia all’ Europa: introduzione alla European Democratic Education Community (EUDEC) (facilita Ute Siess)
    • Le scuole autonome libertarie: esperienze italiane, Verona , Bologna e le altre (facilitano Gabriella Prati e Collettivo di Studi Kiskanu)
    • Pratiche filosofiche con i bambini: esperienze e riflessioni (facilita Silvia Bevilacqua)
    • Pratiche di democrazia diretta nella scuola statale: la parola agli insegnanti (facilitano Simone Piazza e Francesco Giordano)
    • Immaginare una scuola libertaria: come nasce una scuola democratica (facilita Irene Stella)
  • ore 13.00: Pranzo
  • ore 14.00: Condivisione in plenaria dei lavori di gruppo
  • ore 14.45: Conclusioni di Francesco Codello.

Sono previste pause caffè nell’ arco della giornata e dalle ore 10.00 alle ore 13.00 e dalle ore 14.00 alle ore 16.00 è previsto uno spazio gioco per bambini.

All’incontro verrà presentata e distribuita una Proposta di manifesto per l’educazione libertaria, documento aperto elaborato dai membri della rete e volto a delinearne i principi ispiratori e le pratiche di riferimento.

 

Come arrivare

In auto:
per raggiungere La Villetta, dal raccordo anulare prendere l’ uscita 26-Roma centro-Eur, prendere la via Cristoforo Colombo e seguire le indicazioni di seguito riportate -> Mappa.

In treno e con i mezzi pubblici:
Dalle stazioni Termini o Tiburtina prendere la Metrop linea B e scendere alla fermata Garbatella. Da qui seguire a piedi per Piazza Damiano Sauli (ca 10 minuti). Arrivati in piazza chiedere della Villetta (da percorrere pochi
metri lungo la discesa a destra della piazza).

Dove dormire

Dove alloggiare, suggerimenti per b&b, pensioni e ostelli nelle vicinanze

Altre informazioni

Per chi fosse interessato, il pranzo sarà preparato dall’associazione dall’ Associazione “100% Bio” della Città dell’ Altra Economia di Testaccio ad un costo di 10 euro (per prenotare il pranzo esprime l’ apposita preferenza all’ interno del modulo on line).

Saranno presenti banchi libri con testi sulla pedagogia libertaria e tematiche affini.

Contatti

Per ulteriori informazioni rivolgersi a lazio@educazionelibertaria.org oppure chiamare il 3484393492 dopo le 20.

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report della marcia

La Jornada – Domenica 8 maggio 2011

Migliaia di indigeni con i passamontagna provenienti dalle cinque regioni sotto l’influenza dell’EZLN hanno percorso le strade di San Cristóbal

Speciale di Gloria Muñoz Ramírez. San Cristóbal de las Casas, Chiapas. 7 maggio. Nel più sorprendente ed assoluto silenzio, più di 15 mila basi di appoggio dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), secondo calcoli prudenti, oggi hanno inondato le strade di questa città nella riapparizione pubblica delle comunità in ribellione e dello stato maggiore del Comitato Clandestino Rivoluzionario Indigeno-Comandancia Generale dell’EZLN dopo più di cinque anni senza manifestare fuori dal proprio territorio.

Nel discorso principale, davanti ad una piazza colma di zapatisti e di organizzazioni e collettivi dell’Altra Campagna in Chiapas, il Comandante David ha espresso con chiarezza la posizione dell’EZLN rispetto alla guerra ed alle diverse correnti: “Non si tratta di vedere chi vince tra cattolici, evangelici, mormoni, presbiteriani o di qualunque religione o non credenti. Non si tratta di vedere chi è indigeno e chi no. Non si tratta di vedere chi è più ricco o più povero. Non si tratta di chi è di sinistra, di centro o di destra. Non si tratta se sono migliori i panisti o i priisti o i perredisti o come si chiamino o se sono tutti ugualmente cattivi. Non si tratta di chi è zapatista o non lo è. Non si tratta di stare col crimine organizzato o col crimine disorganizzato che è il malgoverno. No. Si tratta che per essere quello che ognuno sceglie di essere, per credere o non credere, per scegliere un’ideologica, politica o religiosa, per discutere, concordare o essere in disaccordo, sono necessarie la pace, la libertà, la giustizia”.

Migliaia di indigeni con i passamontagna provenienti dalle cinque regioni sotto l’influenza dell’EZLN (La Realidad, La Garrucha, Morelia, Roberto Barrios e Oventic) sono arrivati in camion dalle prime ore della mattina. Con i volti coperti e con la disciplina che li caratterizza, sono partiti in fila dal Centro Indigeno di Formazione Integrale (Cideci), alla periferia di questa città, fino alla Piazza della Pace, dove sono arrivati dopo oltre quattro ore, e quando la testa del corteo è arrivata nella piazza, la strada per San Juan Chamula, il quartiere di San Ramón, il Puente Blanco e alle Diego de Mazariegos erano piene di zapatisti.

Quasi al termine del suo discorso, il Comandante David ha ripetuto per sette volte un messaggio rivolto a tutte le vittime e familiari della guerra di Calderón: “Non siete soli”, una consegna che li accompagna da oltre 17 anni e che in quest’occasione hanno espresso in un solo grido, col pugno sinistro alzato, in uno dei momenti più emozionanti della manifestazione.

Gli zapatisti hanno segnalato chiaramente che con la loro adesione alla mobilitazione nazionale, ed in particolare con la loro presenza silenziosa a San Cristóbal de las Casas, non intendono indicare strade né rispondere alla domanda su che cosa succederà. Inoltre hanno detto, “non siamo qui per parlare dei nostri dolori, delle nostre lotte, dei nostri sogni, delle nostre vite e morti… Oggi siamo qui per rappresentare decine di migliaia di indigeni zapatisti, molto più di che oggi si vedono, per dire a questo dignitoso passo silenzioso che nella sua domanda di giustizia, che nel suo lottare per la vita, che nel suo anelito di pace, che nella sua esigenza di libertà, noi li comprendiamo e li appoggiamo. Oggi siamo qui per rispondere all’appello di chi lotta per la vita, al quale il malgoverno risponde con la morte”.

Più di 30 Comandanti dell’EZLN, tra loro Tacho, Zebedeo, Bulmaro, Guglielmo, Miriam ed Ester, hanno occupato il palco davanti alla Cattedrale della Pace. Da lì, il Comandante David ha spiegato che l’appello alla marcia nazionale nasce da persone che “non ci stanno chiamando o convincendo ad abbracciare una religione, un’idea, un pensiero politico o una posizione sociale. Non ci stanno chiamando a cacciare un governo per metterne un altro. Non ci stanno diiendo che bisogna votare per uno o per un altro. Queste persone ci stanno convocando a lottare per la vita. E può esserci vita solo se ci sono libertà, giustizia e pace. Per questo questa è una lotta tra chi vuole la vita e chi vuole la morte”.

In incredibile silenzio e con migliaia di piccoli cartoncini con le parole “Non più sangue”, “Ne abbiamo abbastanza” e “Stop alla guerra di Calderón”, gli zapatisti tzotziles, tzeltales, tojolabales, choles, zoques e mames hanno sfilato con enormi striscioni con i seguenti messaggi: “fratelli e sorelle, proviamo dolore per la perdita dei vostri cari, per questa guerra crudele di Calderón” e “Viva la vita, la libertà, la giustizia e la pace”.

Alla fine, dopo di più di 5 ore di mobilitazione, senza contare le ore impiegate per raggiungere questa città, la maestra di cerimonia ha detto: “Abbiamo detto quello che dovevamo dire. Anche se siamo stanchi, ma questa  la lotta”. E sulle traduzioni in tzotzil, tzeltal, tojolabal e chol ha detto con humor zapatista, “sappiamo che non avete capito niente, ma ci avete sopportat. Grazie per la vostra pazienza”. Poi ha salutato, “come siamo venuti, ora ce ne andiamo”. http://www.jornada.unam.mx/2011/05/08/index.php?section=politica&article=003n1pol

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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