ultima parte scambio epistolare

SULLE GUERRE

La lettera completa, anche in formato .pdf alla pagina:

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Ultima parte dello scambio espistolare tra il Subcomandante Marcos e Luis Villoro:


III.- NIENTE DA FARE?

A chi trae le sue meschine somme e sottrazioni elettorali da questo conteggio mortale, ricordiamo che:

17 anni fa, il 12 gennaio 1994, una gigantesca mobilitazione cittadina (attenzione: senza capi, comandi centrali, leader o dirigenti) qui fermò la guerra. Di fronte all’orrore, la distruzione e le morti, 17 anni fa la reazione fu quasi immediata, contundente, efficace.

Ora è lo shock, l’avarizia, l’intolleranza, la meschinità che lesina appoggi e convoca all’immobilismo… e all’inefficienza.

La lodevole iniziativa di un gruppo di lavoratori della cultura (“NON PIU’ SANGUE”) è stata screditata fin dall’inizio per non “essersi piegata” ad un progetto elettorale, per non aver rispettato il mandato di aspettare il 2012.

Ora che hanno la guerra nelle loro città, per le strade, nelle proprie case, che cosa hanno fatto? Dico, oltre a “piegarsi” davanti a chi ha “il progetto migliore”.

Chiedere alla gente di aspettare il 2012? Che allora sì bisogna tornare a votare per il meno peggio perché allora si rispetterà il voto?

Se si contano più di 34 mila morti in 4 anni, sono oltre 8 mila morti all’anno. Cioè, bisogna aspettare altri 16 mila morti per fare qualcosa?

Perché si metterà al peggio. Se gli attuali candidati alle elezioni presidenziali del 2012 (Enrique Peña Nieto e Marcelo Ebrard) governano le entità con maggior numero di cittadini, non c’è d’aspettarsi che lì aumenterà la “guerra contro la criminalità organizzata” con la sua scia di “danni collaterali”?

Che cosa faranno? Niente. Proseguiranno sulla stessa strada dell’intolleranza e della demonizzazione di quattro anni fa, quando nel 2006 tutto quello che non era a favore di López Obrador era accusato di fare gli interessi della destra. Quell@ che allora ci attaccarono e calunniarono, ora seguono la stessa strada nei confronti di altri movimenti, organizzazioni, proteste, mobilitazioni.

Perché la presunta grande organizzazione nazionale che si prepara perché nelle prossime elezioni federali vinca un progetto alternativo di nazione, non fa qualcosa adesso? Dico, se pensano di poter mobilitare milioni di messicani affinché votino per qualcuno, perché non mobilitarli per fermare la guerra e il paese sopravviva? O è un calcolo meschino e vile? Che il conto dei morti e delle distruzione sottragga punti al rivale e ne aggiunga al favorito?

Oggi, in mezzo a questa guerra, il pensiero critico viene di nuovo rimandato. In primo luogo: il 2012 e le risposte alle domande sui “galletti”, nuovi o riciclati, per quel futuro che da oggi si sgretola. Tutto deve essere subordinato a questo calendario ed ai suoi passaggi: prima, le elezioni locali in Guerrero, Bassa California Sud, Hidalgo, Nayarit, Coahuila, Stato del Messico.

E mentre tutto precipita, ci dicono che la cosa importante è analizzare i risultati elettorali, le tendenze, le possibilità. Invitano a resistere fino al momento di tracciare il segno sulla scheda elettorale, e poi di aspettare che tutto si sistemi e si torni ad innalzare il fragile castello di carta della classe politica messicana.

Ricordano che loro si burlavano ed attaccavano chi dal 2005 invitava la gente ad organizzarsi secondo le proprie esigenze, storia, identità ed aspirazioni e non scommettere su qualcuno là in alto che risolvesse tutto?

Ci siamo sbagliati noi o loro?

Chi nelle principali città osa dire che può uscire tranquillo se non all’alba, almeno al tramonto?

Chi fa suo quel “stiamo vincendo” del governo federale e guarda con rispetto, e non con paura, soldati, marinai e poliziotti?

Chi sono quelli che adesso si svegliano senza sapere se saranno vivi, sani o liberi al termine della giornata che comincia?

Chi non riesce ad offrire alla gente una via d’uscita, un’alternativa, che non sia aspettare le prossime elezioni?

Chi non riesce a lanciare un’iniziativa che davvero attecchisca localmente, non diciamo a livello nazionale?

Chi è rimasto solo?

Perché alla fine, chi rimarrà sarà chi resisterà; chi non si sarà venduto; chi non si sarà arreso; chi non avrà tentennato; chi avrà compreso che le soluzioni non vengono dall’alto, ma si costruiscono in basso; chi non avrà scommesso né scommette sulle illusioni che vende una classe politica vecchia che appesta come un cadavere; chi non avrà seguito il calendario di chi sta in alto né adeguato la sua geografia a quel calendario trasformando un movimento sociale in una lista di numeri di certificati elettorali; chi non sarà rimasto immobile di fronte alla guerra, aspettando il nuovo spettacolo di giochi di prestigio della classe politica nel circo elettorale, ma hanno costruito un’alternativa sociale, non individuale, di libertà, giustizia, lavoro e pace.

IV.- L’ETICA E LA NOTRA ALTRA GUERRA.

Prima abbiamo detto che la guerra è inerente al capitalismo e che la lotto per la pace è anticapitalista.

Lei, Don Luis, prima ha detto anche che “la moralità sociale costituisce solo un primo livello, precritico, dell’etica. L’etica critica incomincia quando l’individuo si allontana dalle forme di moralità esistenti e si pone domande sulla validità delle sue regole e comportamenti. Si può rendere conto che la moralità sociale non obbedisce alle virtù che proclama”.

È possibile portare l’Etica nella guerra? È possibile farla irrompere nelle parate militari, tra i gradi militari, posti di blocco, operativi, combattimenti, morti? È possibile portarla a mettere in discussione la validità delle regole e dei comportamenti militari?

O l’ipotesi della sua possibilità non è altro che un esercizio di speculazione filosofica?

Perché l’inclusione di questo “altro” elemento nella guerra sarebbe forse possibile solo come paradosso. Includere l’etica come fattore determinante di un conflitto porterebbe come conseguenza ad un’ammissione radicale: il rivale sa che il risultato della sua “vittoria” sarà la sua sconfitta.

E non mi riferisco alla sconfitta come “distruzione” o “abbandono”, bensì alla negazione dell’esistenza come forza belligerante. E’ così, una forza fa una guerra che, se la vince, significherà la sua scomparsa come forza. E se la perde è lo stesso, ma nessuno fa una guerra per perderla (beh, Felipe Calderón Hinojosa sì).

E qui sta il paradosso della guerra zapatista: se perdiamo, vinciamo; e se vinciamo, vinciamo. La chiave sta nel fatto che la nostra è una guerra che non vuole distruggere il rivale nel senso classico.

È una guerra che cerca di annullare il terreno della sua realizzazione e le possibilità dei rivali (noi compresi).

È una guerra per smettere di essere quello che ora siamo e così essere quello che dobbiamo essere.

Questo è stato possibile perché riconosciamo l’altro, l’altra, l’altro che, in altre terre del Messico e del Mondo, e senza essere uguale a noi, soffre le stesse pene, sostiene resistenze simili, che lotta per un’identità multipla che non annulli, assoggetti, conquisti, e che anela ad un mondo senza eserciti.

17 anni fa, il 1 gennaio 1994, si rese visibile la guerra contro i popoli originari del Messico.

Guardando la geografia nazionale in questo calendario, noi ricordiamo:

Non eravamo noi, gli zapatisti, i violenti? Non ci accusarono di voler dividere il territorio nazionale? Non si disse che il nostro obiettivo era distruggere la pace sociale, minare le istituzioni, seminare il caos, promuovere il terrore e distruggere il benessere di una Nazione libera, indipendente e sovrana? Non si segnalò fino alla nausea che la nostra richiesta di riconoscimento dei diritti e della cultura indigeni minava l’ordine sociale?

17 anni fa, il 12 gennaio 1994, una mobilitazione civile, senza appartenenza politica definita, ci chiese di tentare la strada del dialogo per ottenere le nostre richieste.

Noi abbiamo obbedito.

Più e più volte, nonostante la guerra contro di noi, abbiamo insistito con iniziative pacifiche.

Per anni abbiamo resistito ad attacchi militari, ideologici ed economici, ed ora il silenzio su quello che sta succedendo qua.

Nelle condizioni più difficili non solo non ci siamo arresi, né ci siamo venduti, né abbiamo tentennato, ma abbiamo anche costruito migliori condizioni di vita nei nostri villaggi.

Al principio di questa missiva ho detto che la guerra è una vecchia conoscenza dei popoli originari, degli indigeni messicani.

Più di 500 anni dopo, più di 200 anni dopo, più di 100 anni dopo, ed ora con questo altro movimento che reclama la sua molteplice identità comune, diciamo:

Siamo qua.

Abbiamo un’identità.

Abbiamo il senso della comunità perché non abbiamo aspettato né sospirato che arrivassero dall’alto le soluzioni di cui necessitiamo e che meritiamo.

Perché non sottomettiamo il nostro cammino a chi guarda verso l’alto.

Perché, mantenendo l’indipendenza della nostra proposta, ci relazioniamo con equità con l’altro che, come noi, non solo resiste, ma ha costruito un’identità propria che gli dà appartenenza sociale, e che ora rappresenta anche l’unica solida opportunità di sopravvivenza al disastro.

Noi siamo pochi, la nostra geografia è limitata, non siamo nessuno.

Siamo popoli originari dispersi nella geografia e nel calendario più lontani.

Noi siamo un’altra cosa.

Siamo pochi e la nostra geografia è limitata.

Ma nel nostro calendario non comanda l’incertezza.

Noi solamente teniamo a noi stessi.

Forse è poco quello che abbiamo, ma non abbiamo paura.

Bene, Don Luis. La saluto e che la riflessione critica animi nuovi passi.

Dalle montagne del Sudest Messicano.

Subcomandante Insurgente Marcos.

Messico, Gennaio-Febbraio 2011

 

http://enlacezapatista.ezln.org.mx/2011/03/09/apuntes-sobre-las-guerras-carta-primera-completa-del-sci-marcos-a-don-luis-villoro-inicio-del-intercambio-epistolar-sobre-etica-y-politica-enero-febrero-de-2011/

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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sulle guerre. riflessione del Sub Comandante Marcos

SULLE GUERRE

Scambio epistolare tra Luis Villoro ed il Subcomandante Marcos su Etica e Politica
Gennaio-Febbraio 2011

ESERCITO ZAPATISTA DI LIBERAZIONE NAZIONALE

MESSICO

Gennaio-Febbraio 2011

Per: Don Luis Villoro.
Da: Subcomandante Insurgente Marcos.

Dottore, La saluto.

Speriamo davvero che stia meglio in salute e che accolga queste righe non solo come uno scambio di idee, ma anche come un abbraccio affettuoso da noi tutti.

La ringraziamo per aver accettato di partecipare come corrispondente a questo scambio epistolare. Speriamo che da questo sorgano riflessioni che ci aiutino, qua e là, a tentare di comprendere il calendario che patisce la nostra geografia, il nostro Messico.

Mi permetta di iniziare con una specie di bozza. Si tratta di idee, frammentate come la nostra realtà, che possono seguire la loro strada indipendente o allacciarsi come una treccia (l’immagine migliore che ho trovato per “disegnare” il nostro processo di riflessione teorica), e che sono il prodotto della nostra inquietudine per quanto sta attualmente accadendo in Messico e nel mondo.

E qui iniziano questi veloci appunti su alcuni temi, tutti loro relazionati con l’etica e la politica. O piuttosto su quello che noi riusciamo a percepire (e a patire) di loro, e sulle resistenze in generale, e la nostra resistenza in particolare. Come c’è d’aspettarsi, in questi appunti regneranno la schematicità e la riduzione, ma credo che bastino a tracciare una o molte linee di discussione, di dialogo, di riflessione critica.

E si tratta proprio di questo, che la parola vada e venga, scavalcando posti di blocco e pattugliamenti militari e di polizia, del nostro da qua fino al Suo là, anche se poi succeda che la parola se ne vada da altre parti e non importa se qualcuno la raccoglie e la rilancia (che è per questo che sono fatte le parole e le idee).

Sebbene il tema su cui ci siamo accordati sia Politica ed Etica, forse è necessaria qualche deviazione, o meglio, avvicinamenti da punti apparentemente distanti.

E, dato che si tratta di riflessioni teoriche, bisognerà iniziare dalla realtà, quello che gli investigatori chiamano “i fatti”.

In “Scandalo in Boemia“, di Arthur Conan Doyle, il detective Sherlock Holmes dice al suo amico, il Dottor Watson: “È un errore capitale teorizzare prima di avere dati. Senza rendersi conto, uno comincia a deformare i fatti affinché si adattino alle teorie, invece di adattare le teorie ai fatti“.

Potremmo cominciare dunque da una descrizione, affrettata e incompleta, di quello che la realtà ci presenta nella stessa forma, cioè, senza anestesia alcuna, e ricavare alcuni dati. Qualcosa come cercare di ricostruire non solo i fatti ma la forma con la quale prendiamo conoscenza di essi.

E la prima cosa che appare nella realtà del nostro calendario e geografia è una vecchia conoscenza dei popoli originari del Messico: La Guerra.

I.- LE GUERRE DI QUELLI CHE STANNO IN ALTO.

“E in principio furono le statue”.

Così potrebbe iniziare un saggio storico sulla guerra, o una riflessione filosofica sulla reale generatrice della storia moderna. Perché le statue belliche nascondono più di quanto mostrano. Erette per glorificare in pietra la memoria di vittorie militari, non fanno altro che occultare l’orrore, la distruzione e la morte di ogni guerra. E le figure in pietra di dee o angeli incoronati con l’alloro della vittoria non solo servono affinché il vincitore abbia memoria del suo successo, ma anche per forgiare la smemoratezza del vinto.

Ma attualmente questi specchi di roccia sono in disuso. Oltre ad essere seppelliti quotidianamente dalla critica implacabile di uccelli di ogni tipo, hanno trovato nei mezzi di comunicazione di massa un avversario insuperabile.

La statua di Hussein, abbattuta a Baghdad durante l’invasione nordamericana dell’Iraq, non è stata sostituita da una di George Bush, ma dai cartelloni pubblicitari delle grandi multinazionali. Benché il volto ebete dell’allora presidente degli Stati Uniti sarebbe stato adatto a promuovere cheese-burger, le multinazionali hanno preferito auto-erigersi l’omaggio di un nuovo mercato conquistato. All’affare della distruzione, è seguito l’affare della ricostruzione. E, benché si susseguano le perdite tra le truppe nordamericane, la cosa importante è il denaro che va e viene come deve essere: con fluidità e in abbondanza.

La caduta della statua di Saddam Hussein non è il simbolo della vittoria della forza militare multinazionale che invase l’Iraq. Il simbolo sta nel rialzo delle azioni delle aziende sponsor.

“Nel passato erano le statue, ora sono le borse valori”.

Potrebbe essere questa la storiografia moderna della guerra.

Ma la realtà della storia (questo caotico orrore guardato sempre meno e in maniera sempre più asettica), compromette, presenta conti, esige conseguenze, domanda. Uno sguardo onesto ed un’analisi critica potrebbero identificare i pezzi del rompicapo e dunque ascoltare, come un macabro urlo, la sentenza:

“In principio fu la guerra”.


La Legittimazione della Barbarie.

Forse, in qualche momento della storia dell’umanità, l’aspetto materiale, fisico, di una guerra è stata la cosa determinante. Ma, con l’avanzare della pesante e turpe ruota della storia, questo non è bastato. Così come le statue sono servite per il ricordo del vincitore e la smemoratezza del vinto, nelle guerre i contendenti hanno dovuto non solo sconfiggere fisicamente l’avversario, ma anche servirsi di un alibi propagandistico, ovvero, di legittimità. Sconfiggerlo moralmente.

In qualche momento della storia è stata la religione a conferire questo certificato di legittimità alla dominazione guerriera (benché alcune delle ultime guerre moderne non sembrano aver progredito molto in questo senso). Ma poi è stato necessario un pensiero più elaborato e la filosofia ha preso il testimone.

Ricordo ora alcune sue parole: “La filosofia ha sempre avuto un rapporto ambivalente col potere sociale e politico. Da un lato, ha preso il posto della religione come giustificazione teorica della dominazione. Ogni potere costituito ha tentato di legittimarsi, prima con un credo religioso, poi con una dottrina filosofica. (…) Sembrerebbe che la forza bruta che sostiene il dominio manchi di significato per l’uomo se non si giustificasse con un fine accettabile. Il discorso filosofico, che subentra alla religione, è stato incaricato di conferirgli questo senso; è un pensiero di dominio.” (Luis Villoro. “Filosofia e Dominio”. Discorso di ingresso nel Colegio Nacional. Novembre 1978).

In effetti, nella storia moderna quest’alibi poteva arrivare ad essere talmente elaborato come una giustificazione filosofica o giuridica (gli esempi più patetici li ha dati l’Organizzazione delle Nazioni Unite, ONU). Ma la cosa fondamentale era, ed è, munirsi di una giustificazione mediatica.

Se una certa filosofia (seguendola, Don Luis: il “pensiero di dominio” in contrapposizione al “pensiero di liberazione”) ha sostituito la religione in questo compito di legittimazione, ora i mezzi di comunicazione di massa hanno sostituito la filosofia.

Qualcuno ricorda che la giustificazione della forza armata multinazionale per invadere l’Iraq era che il regime di Saddam Hussein possedeva armi di distruzione di massa? Su questo si è costruita una gigantesca impalcatura mediatica che è stata il combustibile per una guerra che non è ancora finita, almeno in termini militari. Qualcuno ricorda che non si sono mai trovate queste armi di distruzione di massa? Non importa più se è stata una bugia, se c’è stato (e c’è) orrore, distruzione e morte, perpetrati con un falso alibi.

Si racconta che, per dichiarare la vittoria militare in Iraq, George W. Bush non aspettò i rapporti che dicevano del ritrovamento e distruzione di queste armi, né la conferma che la forza multinazionale controllava ormai, se non tutto il territorio iracheno, almeno i suoi punti nodali (la forza militare nordamericana era trincerata nella cosiddetta “zona verde” e non riusciva nemmeno ad avventurarsi nei quartieri vicini – si leggano gli stupendi reportage di Robert Fisk per il giornale britannico “The Independent” -).

No, il rapporto che ricevette Washington e gli permise di dichiarare finita la guerra (che di sicuro non è ancora finita), arrivò dai consulenti delle grandi multinazionali: l’affare della distruzione può cedere il passo all’affare della ricostruzione (su questo si vedano i brillanti articoli di Naomi Klein sul settimanale statunitense “The Nation“, ed il suo libro “La Dottrina dello Shock“).

Dunque, la cosa essenziale nella guerra non è solo la forza fisica (o materiale), è anche

necessaria la forza morale che, in questi casi, è fornita dai mezzi di comunicazione di massa (come prima dalla religione e dalla filosofia).

La Geografia della Guerra Moderna.

Se l’aspetto fisico lo riferiamo ad un esercito, cioè, ad un’organizzazione armata, quanto più forte è (cioè, più potere di distruzione possiede), tante più possibilità di successo ha.

Se è l’aspetto morale ad essere riferito ad un organismo armato, quanto più legittima è la causa che lo anima (cioè, quanto più potere di convocazione ha), tanto maggiori sono le possibilità di raggiungere i suoi obiettivi.

Il concetto di guerra si è allargato: si trattava non solo di distruggere il nemico nella sua capacità fisica di combattimento (soldati ed armi) per imporre la volontà propria, era anche possibile distruggere la sua capacità morale di combattimento, benché avesse ancora sufficiente capacità fisica.

Se le guerre si potessero mettere unicamente sul terreno militare (fisico, poiché ci riferiamo a questo), è logico aspettarsi che l’organizzazione armata con maggiore potere di distruzione imponga la sua volontà all’avversario (tale è l’obiettivo dello scontro tra forze) distruggendo la sua capacità materiale di combattimento.

Ma non è più possibile collocare nessun conflitto sul terreno puramente fisico. E’ sempre più complicato il terreno su cui si svolgono le guerre (piccole o grandi, regolari o irregolari, di bassa, media o alta intensità, mondiali, regionali o locali).

Dietro quella grande ed ignorata guerra mondiale (“guerra fredda”, come la chiama la storiografia moderna, noi la chiamiamo “la terza guerra mondiale”), si può trovare una sentenza storica che segnerà le guerre a venire.

La possibilità di una guerra nucleare (portata al limite dalla corsa agli armamenti che consisteva, grosso modo, in quante volte si era capaci di distruggere il mondo) offrì la possibilità di “un altro” finale di un conflitto bellico: il risultato di uno scontro armato poteva non essere l’imposizione della volontà di uno dei contendenti sull’altro, ma poteva presupporre l’annullamento delle volontà in lotta, cioè, della sua capacità materiale di combattimento. E per “annullamento” mi riferisco non solo a “incapacità di azione” (dunque un “pareggio”), ma anche (e soprattutto), a “scomparsa”.

In effetti, i calcoli geomilitari ci dicevano che in una guerra nucleare non vi sarebbero stati vincitori né vinti. E ancora, non ci sarebbe stato nulla. La distruzione sarebbe stata così totale e irreversibile che la civiltà umana avrebbe ceduto il passo a quella degli scarafaggi

L’argomento ricorrente tra le alte sfere militari delle potenze dell’epoca era che le armi nucleari non servivano per combattere una guerra, ma per inibirla. Il concetto di “armi di contenimento” si tradusse allora nel più diplomatico “mezzi di dissuasione”.

In sintesi: la dottrina “moderna” militare si sintetizzava così: impedire che l’avversario imponga la sua volontà (o “strategica”), equivale ad imporre la propria volontà (“strategica”), cioè, spostare le grandi guerre verso le piccole o medie guerre. Non si trattava più di distruggere la capacità fisica e/o morale di combattimento del nemico, ma di evitare che la usasse in uno scontro diretto. Invece, si cercava di ridefinire i teatri di guerra (e la capacità fisica di combattimento) dall’ambito mondiale all’ambito regionale e locale. Insomma: diplomazia pacifica internazionale e guerre regionali e nazionali.

Risultato: non c’è stata guerra nucleare (almeno non ancora, sebbene la stupidità del capitale sia tanto grande quanto la sua ambizione), ma al suo posto ci sono stati innumerevoli conflitti a tutti i livelli che hanno lasciato milioni di morti, milioni di profughi di guerra, milioni di tonnellate di materiale distrutto, economie rase al suolo, nazioni distrutte, sistemi politici fatti a pezzi… e milioni di dollari di profitti.

Ma era stata data la definizione alle guerre “più moderne” o “postmoderne”: sono possibili conflitti militari che, per la loro natura, siano irrisolvibili in termini di forza fisica, cioè, nell’imporre con la forza la propria volontà all’avversario.

Potremmo supporre dunque che si iniziò una lotta parallela SUPERIORE alle guerre “convenzionali”. Una lotta per imporre una volontà sull’altra: la lotta del potente militarmente (o “fisicamente” per transitare nel microcosmo umano) per impedire che le guerre si svolgessero su terreni dove non si potevano raggiungere risultati convenzionali (del tipo “l’esercito meglio equipaggiato, addestrato ed organizzato sarà potenzialmente vittorioso sull’esercito peggio equipaggiato, addestrato ed organizzato”). Potremmo supporre, quindi, che al contrario, c’è la lotta del militarmente (o “fisicamente”) debole per fare che le guerre si svolgano su terreni dove il predominio militare non sia un fattore decisivo.

Le guerre “più moderne” o “postmoderne” non sono, quindi, quelle che mettono sul terrene le armi più sofisticate (e qui includo non solo le armi come tecnica militare, ma anche quelle considerate tali negli organigrammi militari: la fanteria, la cavalleria, i blindati, etc.), bensì quelle che sono portate su terreni dove la qualità e la quantità del potere militare non è il fattore determinante.

Con secoli di ritardo, la teoria militare di quelli che stanno in alto scopriva che sarebbero possibili conflitti nei quali un concorrente terribilmente superiore in termini militari sia incapace di imporre la sua volontà su un rivale debole.

Sì, sono possibili.

Gli esempi nella storia moderna abbondano, e quelli che adesso mi vengono in mente sono di sconfitte della più grande potenza bellica al mondo, gli Stati Uniti d’America, in Vietnam e a Playa Girón. Anche se potremmo aggiungere alcuni esempi dai calendari passati e della nostra geografia: le sconfitte dell’esercito realista spagnolo dalle forze insorte nel Messico di 200 anni fa.

Tuttavia, la guerra è lì con la sua questione centrale: la distruzione fisica e/o morale del rivale per imporre la propria volontà, continua ad essere il fondamento della guerra di quelli che stanno in alto.

Allora, se la forza militare (o fisica, ripeto) non solo non è rilevante ma può essere prescindibile come variabile determinante nella decisione finale, abbiamo che nel conflitto bellico entrano altre variabili o alcune di quelle presenti come secondarie passano in primo piano.

Questo non è nuovo. Il concetto di “guerra totale” (sebbene non come tale) ha precedenti ed esempi. La guerra a tutti i costi (militari, economici, politici, religiosi, ideologici, diplomatici, sociali ed anche ecologici) è sinonimo di “guerra moderna”.

Ma manca la cosa fondamentale: la conquista di un territorio. Ovvero, questa volontà si impone certo in un calendario preciso, ma soprattutto in una geografia delimitata. Se non c’è un territorio conquistato, cioè, sotto il controllo diretto o indiretto della forza conquistatrice, non è vittoria.

Benché si possa parlare di guerre economiche (come il blocco che il governo nordamericano mantiene contro la Repubblica di Cuba) o di aspetti economici, religiosi, ideologici, razziali, etc., di una guerra, l’obiettivo continua ad essere lo stesso. E nell’epoca attuale, la volontà che tenta di imporre il capitalismo è distruggere/spopolare e ricostruire/riordinare il territorio conquistato.

Sì, ora le guerre non si accontentano di conquistare un territorio e ricevere il tributo dalla forza vinta. Nella tappa attuale del capitalismo è necessario distruggere il territorio conquistato e spopolarlo, cioè, distruggere il suo tessuto sociale. Parlo dell’annichilimento di tutto quello che dà coesione ad una società.

Ma la guerra di quelli che stanno in alto non si ferma qui. Contemporaneamente alla distruzione ed allo spopolamento, si opera la ricostruzione di questo territorio ed il riordino del suo tessuto sociale, ma ora con un’altra logica, un altro metodo, altri attori, un altro obiettivo. Insomma: le guerre impongono una nuova geografia.

Se in una guerra internazionale questo complesso processo avviene nella nazione conquistata e si opera dalla nazione assalitrice, in una guerra locale o nazionale o civile il territorio da distruggere/spopolare e ricostruire/riordinare è comune alle forze in lotta.

Cioè, la forza attaccante vittoriosa distrugge e spopola il proprio territorio.

E lo ricostruisce e riordina secondo il suo piano di conquista o riconquista.

Anche se non ha un piano… “qualcuno” opera quella ricostruzione – riordino.

Come popoli originari messicani e come EZLN possiamo dire qualcosa sulla guerra. Soprattutto se si svolge nella nostra geografia ed in questo calendario: Messico, inizi del secolo XXI…

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Ejidatarios di San Sebastian Bachajon accusano il governo delle violenze

La Jornada – Giovedì 10 marzo 2011

Castañón León accusato di usare la violenza per sottrarre Agua Azul agli ejidatarios

Hermann Bellinghausen

Gli ejidatarios di San Sebastián Bachajón aderenti all’Altra Campagna nel municipio di Chilón, in Chiapas, accusano il governo dello stato, il segretario di Governo, Noé Castañón León, ed il Consiglio Statale dei Diritti Umani (CEDH) “dello sgombero violento dei compagni lo scorso 2 febbraio, da parte di un gruppo di priisti che lo stesso segretario di Governo ha organizzato con le autorità del municipio di Chilón”.

Sostengono che l’operazione per spogliarli dell’accesso alle cascate di Agua Azul “è stata finanziata dai tre livelli di governo, a fronte di un accordo con le autorità del municipio di Tumbalá ed i filogovernativi di San Sebastián Bachajón “per consegnare al governo il sito turistico” che ora è sotto la gestione della Segreteria delle Entrate dello stato in base “agli accordi firmati tra loro”.

Gli ejidatarios di San Sebastián sottolineano che “questo ‘accordo’ è stato fatto in un’assemblea del 3 e 5 febbraio”, convocata due giorni prima, quando “normalmente la convocazione avviene 15 giorni prima, con notifica affissa in luoghi visibili, e secondo la Legge Agraria, almeno con 8 giorni di anticipo”.

In un’inserzioni sulla stampa, la CEDH il giorno 8 marzo ha affermato che “il problema” è dovuto “alla non presenza dell’Altra Campagna” ai tavoli dei negoziati installati dal governo e che per questo “il conflitto non è stato risolto”. La commissione stessa ha accusato i membri dell’Altra Campagna, che lunedì scorso hanno bloccato la strada, di essere “armati di machete e bastoni, alterare l’ordine, commettere danni a terzi”.

Questo, replicano gli ejidatarios, quando “l’arma peggiore che portavano i manifestanti erano i loro slogan e le loro richieste”. Questa volta, “la strategia del malgoverno è un risultato vergognoso, avendo fatto ricorso ad un accordo povero di contenuti che è solo uno strumento per ingannare la gente ed impadronirsi delle nostre terre e delle sue risorse. Per questo, “purtroppo, i nostri compagni sono in carcere”.

Rispetto alla versione della CEDH, gli indigeni affermano: “È vergognoso che essendo un organismo per i diritti umani, sia stato la maschera per il malgoverno”, che vuole “nascondere la vera intenzione di spogliare con violenza, crudeltà, odio e rabbia chi difende la propria dignità, la terra, il territorio e la propria autonomia”.

Di fronte alle accuse, ejidatarios ed aderenti all’Altra Campagna, questo mercoledì a San Cristóbal de las Casas dichiarano: “Non ci arrenderemo, che sia ben chiaro al governo di Juan Sabines Guerrero, che fino a che non libererà i nostri compagni carcerati ingiustamente, continueremo a manifestare e in maniera sempre più decisa”.

Sostengono che il loro “è un territorio autonomo e non per progetti transnazionali; difenderemo le nostre terre e le risorse senza badare alle conseguenze”.

Annunciano che, come “padroni legittimi di queste terre, eredità dei nostri antenati”, sospenderanno “l’attività” che stavano svolgendo (il blocco della strada Ocosingo-Palenque), “per cercare altre alternative ed ottenere la libertà incondizionata dei nostri compagni prigionieri politici”. Avvertono che continueranno “a smascherare il malgoverno corrotto, che con il suo operato ci ha voluti intimorire”.

Concludono che “è il momento di organizzarci meglio e continuare a dimostrare realmente al governo chi siamo e perché lottiamo, ed al CEDH che siamo un’organizzazione pacifica che lotta per le proprie terre, territori e autonomia, che non si inganni”. http://www.jornada.unam.mx/2011/03/10/index.php?section=politica&article=022n1pol

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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libertà per 4 membri dell’Altra Campagna

La Jornada – Domenica 6 marzo 2011

Rilasciati quattro membri dell’Altra Campagna

Elio Henríquez. Corrispondente. San Cristóbal de las Casas, Chis., 5 marzo. Con la rinuncia dell’azione penale da parte della Procura Generale di Giustizia dello Stato (PGJE), da mercoledì ad oggi sono stati liberati quattro dei dieci indigeni dell’Altra Campagna fermati il 3 febbraio scorso nel centro turistico delle Cascate di Agua Azul, dopo uno scontro con ejidatarios priisti di San Sebastián Bachajón, municipio di Chilón che ha provocato un morto e due feriti.

Fonti ufficiose hanno detto che la notte di mercoledì è stato rilasciato Pedro García Alvarado, presuntamente non in possesso delle facoltà mentali, che era accusato di danneggiamenti ed attentato contro la pace e la collettività. Tra giovedì e sabato sono stati scarcerati Miguel Álvaro Deara, Pedro Hernández López e Miguel López Deara.

Per il minorenne di 17 anni, Mariano Demeza Silvano, uno dei sei che ancora sono in prigione, è stata stabilita una cauzione di 22 mila pesos. È probabile che nei prossimi giorni o settimane possano essere scarcerati gli altri cinque che si trovano nella prigione del municipio di Playas de Catazajá, a nord del Chiapas, hanno dichiarato le fonti consultate.

In questo contesto, il Centro dei Diritti Umani Fray Bartolomé de las Casas ha comunicato che gli ejidatarios di San Sebastián Bachajón, aderenti all’Altra Campagna, hanno presentato un esposto contro la costruzione del botteghino di ingresso alle cascate da parte del governo statale, su mandato delle segreterie delle Infrastruttura e del Fisco, le quali il 13 febbraio hanno sottoscritto un accordo “in maniera illegale ed arbitraria, perché non è stata consultata l’assemblea”.

Ricardo Lagunes, avvocato dell’organizzazione, ha detto che la costruzione del botteghino di riscossione conteso dai due gruppi di ejidatarios, colpisce i diritti collettivi dell’ejido San Sebastián Bachajón, come comunità, come nucleo agrario e come popolo indigeno.

Aggiunge che il settimo tribunale di distretto esaminerà l’esposto presentato nei giorni scorsi affinché si sospenda immediatamente la costruzione su una superficie ad uso comune. http://www.jornada.unam.mx/2011/03/06/index.php?section=politica&article=014n1pol

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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mobilitazioni a sostegno dei prigionieri politici in chiapas

La Jornada – Sabato 5 marzo 2011

Mobilitazioni in Stati Uniti ed altri Paesi per la liberazione dei prigionieri politici in Chiapas

Hermann Bellinghausen

Gli ejidatarios dell’Altra Campagna di San Sebastián Bachajón, municipio di Chilón, Chiapas, annunciano che nei giorni 7 e 8 marzo realizzeranno “un blocco a tempo indefinito” davanti alla sede della regione autonoma zapatista San José en Rebeldía, vicino al crocevia di Agua Azul, sulla strada Ocosingo-Palenque. “Per chiedere la liberazione dei nove compagni detenuti nel carcere di Playas de Catazajá”, ed un minorenne nel centro Villa Crisol, “autorità comunitarie, familiari dei carcerati, donne e uomini saranno in digiuno e preghiera”.

“Sappiamo molto bene che il malgoverno di Juan Sabines Guerrero ha elaborato una strategia per spogliarci delle nostre terre, usando i vari leader priisti di altri municipi”.

Denunciano “l’ondata di violenza, intimidazioni e minacce da parte di leader del Partito Verde Ecologista”, al quale appartiene l’attuale sindaco di Chilón. Questo si ostenta come “il primo presidente cristiano”, e secondo gli ejidatarios è “esperto nel convincere la gente con progetti di ecoturismo degli investitori internazionali, violentando i diritti di uomini, donne e bambini”.

Attualmente il posto è occupato da poliziotti, in “spazi privati” della comunità e senza il consenso dei proprietari. È il caso di una chiesa cattolica della comunità Sakil Ulub, che mostra “una situazione preoccupante: donne, uomini e poliziotti, l’hanno presa come un gabinetto privato, mentre gli indigeni nativi di questa comunità l’hanno conservata come un’area sacra per le preghiere”.

Aggiungono che il cosiddetto “tavolo di dialogo” che il governo ha proposto ai detenuti “per ottenere la loro liberazione”, è “solo una dimostrazione degli interventi del governo per espropriare il centro turistico rispondendo ad interessi economici, senza tenere conto di cultura, tradizione, né dell’eredità dei nostri antenati, che è la nostra madre Terra”.

Gli ejidatarios tzeltales lamentano “che il denaro del malgoverno ha reso ignoranti persone che sono indigeni, aumentando la tensione, la minaccia e l’intimidazione”.

Con la loro mobilitazione, gli ejidatarios dell’Altra Campagna insisteranno sulla liberazione immediata dei detenuti, “il rispetto della loro dignità e quella dei loro familiari” ed il ritiro della polizia da Agua Azul.

Esigono anche “la soluzione dei conflitti di Agua Azul, Mitzitón, Tila, Chicomuselo ed altre comunità, per problemi legati all’uso delle risorse naturali ed il controllo delle terre e territori, e lo stop alla violenza del sistema capitalista neoliberale patriarcale contro le donne, le loro famiglie e le comunità, ed alla violenza nelle regioni indigene, contadine e nei territori autonomi zapatisti”.

Nella città di New York per il prossimo lunedì 7 si svolgerà “La giornata mondiale per la liberazione dei prigionieri politici di San Sebastián Bachajón”, la cui eco raggiungerà molte parti dell’Europa, America Latina e Messico.

La convocazione è stata fatta dal Movimento per la Giustizia del Barrio, nell’est di Harlem, aderente alla Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona. Sono confermate azioni in Sudafrica, Francia, Inghilterra, Scozia, Stati Uniti, Catalogna, e Germania.

La giornata internazionale culminerà martedì 8 con una commemorazione del “Giorno Internazionale in Onore delle Donne dell’Altra Campagna”. Gli organizzatori di New York – la maggior parte immigrati messicani che hanno sconfitto molte volte le imprese costruttrici multinazionali a El Barrio – condividono l’appello degli ejidatarios: “I nostri fratelli di San Sebastián sono riusciti a rompere la frontiera neoliberale che ci impongono quelli che stanno in alto, inviandoci un videomessaggio. Hanno toccato i nostri cuori. Il videomessaggio include una spiegazione della loro degna lotta, degli attacchi recenti e dell’arresto dei loro compagni”. http://www.jornada.unam.mx/2011/03/05/index.php?section=politica&article=021n1pol

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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il governo e la creazione e gestione del conflitto in chiapas

La Jornada – Venerdì 4 marzo 2011

I  conflitti  in  Chiapas,  “creati e gestiti dal governo”.

Il Frayba denuncia Noé Castañón León quale “autore intellettuale”

Hermann Bellinghausen

In una rapporto Rapporto presentato a San Cristóbal de las Casas, il Centro dei Diritti Umani Fray Bartolomé de las Casas (CDHFBC, noto anche come Frayba) rileva che il governo del Chiapas “crea e gestisce i conflitti per il controllo del territorio”, a scapito dei diritti delle comunità indigene.

Si tratta di un’analisi documentale sulla situazione imperante e gli interessi nel marco del “conflitto armato interno, ora nella fase di disputa del territorio, poiché il Chiapas è una vena di enorme ricchezza per gli investimenti privati, promossi con i progetti turistici”. Secondo lo studio, i progetti d’investimento “vogliono sottrarre le terre alle comunità attraverso sgomberi forzati, cooptazione per la firma di ‘accordi di sviluppo’, occupazione poliziesca e militare, e criminalizzazione di attivisti e avvocati”.

In questa cornice, prosegue il Centro, i fatti successi il 2 febbraio nella zona di Agua Azul, nell’ejido San Sebastián Bachajón (Chilón), dove ha perso la vita Marcos García Moreno ed è rimasto ferito Tomás Pérez Deara, e la cattura di 117 persone, 10 delle quali restano in carcere come “prigionieri”, rappresentano “l’implementazione di una strategia calcolata dal governo dello stato, che ha generato lo scontro per poi inserirsi come mediatore e gestire il conflitto”.

Il CDHFBC assicura di essere in possesso di testimonianze che denunciano il segretario generale di Governo, Noé Castañón León, come uno dei “autori intellettuali” dell’aggressione. Sottolinea che il governo statale “ha rotto un processo di dialogo comunitario che gli attori stavano portando avanti dal 2010” affinché gli abitanti della zona amministrino e preservino le proprie risorse.

Il Rapporto include la testimonianza di una persona presente ad una delle riunioni dove si sarebbe deciso di affrontare gli ejidatarios, “creando gruppi di scontro”, e “catturare gli aderenti all’Altra Campagna” per distrarli con una lotta per la liberazione dei loro prigionieri. Lo scopo ufficiale di occupare il botteghino di ingresso ejidale è stato attuato il 2 febbraio. “Non è un conflitto comunitario”, aggiunge. Come nemmeno lo è a Mitzitón né lo fu adActeal nel 1997. Castañón León sarebbe “l’artefice del conflitto” per favorire i piani di investimento privato. Inoltre, “c’è l’interesse militare di controllare quest territorio”, che si trova vicino a comunità autonome zapatiste come San José en Rebeldía e Bolón Ajaw (che, con le nuove disposizioni amministrative, verrebbe circondata).

La situazione “è il prodotto di una guerra di logoramento che genera le condizioni per affrontare le organizzazioni della regione; ciò che è in disputa non è un botteghino di ingresso alle cascate, ma la difesa della terra e del territorio dei popolo indigeni che stanno costruendo un progetto di autonomia”. Sulla base delle informazioni raccolte (documenti, testimonianze, denunce di ejidatarios), il CDHFBC afferma che “il governo messicano non è intervenuto per prevenire il conflitto” e “ha pianificato gli eventi mediante una strategia per il controllo del territorio nell’ambito di un conflitto armato irrisolto”.

Il CDHFBC comunica di aver assunto la difesa legale degli arrestati di San Sebastián. I filogovernativi (priisti e del Partito Verde Ecologista) “hanno consegnato le terre al governo Juan Sabines Guerrero senza l’autorizzazione dell’assemblea degli ejidatarios”. Questo gruppo è utilizzato dal governo “per cacciare le comunità dell’Altra Campagna e spingere la privatizzazione delle cascate di Agua Azul”.

In questo modo si attacca il progetto di autonomia “che impedisce al governo di privatizzare la terra per progetti imprenditoriali”. Attizzare il conflitto non è cosa nuova. “La strategia è la stessa, ma più aggressiva”. Giorni fa il presidente Felipe Calderón Hinojosa ha visitato la regione ed avrebbe “dato il benestare” all’incursione della polizia.

Per il resto, è stato ignorato il fatto che nell’aggressione filogovernativa ci sono stati dei feriti dell’Altra Campagna. Questi ribadiscono che è stato il gruppo di scontro guidato da  Carmen Aguilar Gómez “che ha ucciso il proprio compagno”, e non gli arrestati che nemmeno si trovavano sul luogo dei fatti. http://www.jornada.unam.mx/2011/03/04/index.php?section=politica&article=024n1pol

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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appello contro aggressione dello stato del chiapas ai movimenti sociali e ai difensori dei diritti umani

Per aderire all’appello manda la tua firma a espoirchiapas@hotmail.fr o pubblicala nei commenti a questo link http://gazcostachis.blogspot.com/2011/02/suma-tu-adhesion-numerosas.html

 

Aggressione del governo del Chiapas ai movimenti sociali e ai difensori dei diritti umani

Lo scorso 22 Febbraio 2010, varie associazioni hanno realizzato un blocco stradale sulla via che da Tonalà porta a Pijijiapan (Chiapas) all’altezza di Pilitas, aderendo alla chiamata della Otra Campaňa per una manifestazione in favore della libertà dei prigionieri politici.

Trecento persone appartenenti al Consejo Autonomo Regional de la Zona Costa de Chiapas (CARZC) hanno espresso il loro rifiuto alle aggressioni e agli arresti subiti nella regione e il loro appoggio ai compagni di San Sebastián Bachajón e Mitzitón, recentemente attaccati da gruppi paramilitari.

Il blocco è stato tolto verso le 16, mentre a Tonalà alcuni rappresenti del CARZC prendevano parte a una riunione con membri del governo. Un’ora più tardi, mentre la gente stava già tornando alle proprie comunità, sono iniziate le detenzioni indiscriminate da parte di elementi della Polizia Federale; mentre altri manifestanti venivano circondati nella zona del blocco da corpi della Polizia Statale che impediva loro il ritorno a casa.

Il Pubblico Ministero si è in principio rifiutato di dare qualsiasi tipo di informazione sul numero degli arrestati e la loro identità, oltre a proibire la visita di avvocati e familiari. Solo verso l’1 della notte, attraverso il Consejo Estatal de Derechos Humanos, si è potuti venire a conoscenza del numero esatto dei compagni che si trovavano in carcere, in tutto 19.

Dopo lunghe ore di attesa e assenza di notizie, la mattina del 23 sono state espresse le accuse, assolutamente prive di fondamento, a cui si trovano di fronte i difensori dei diritti umani della costa chiapaneca: attacco alle vie di comunicazione, disordini e cospirazione.

Durante il giorno 23 sono state messe in libertà 3 persone, restano in carcere 16 attivisti. La moltitudine di familiari e compagni che si trovava di fronte alla procura è stata sciolta sotto le minacce dei corpi di polizia e con la falsa promessa che i detenuti sarebbero stati liberati entro il giorno seguente, dando adito ai sospetti che si tratti in effetti di arresti politici e non penali.

Questo non è un fatto isolato, lo riconosciamo come strategia del governo statale di aggressione e repressione verso le organizzazioni aderenti alla Otra Campaňa nel Chiapas.

La repressione durante le mobilitazioni del 22 Febbraio contro il Consejo Autònomo Regional de la Costa de Chiapas, assieme agli arresti e ai processi ingiustificati contro le comunità di Bachajon e Mitziton, il silenzio mediatico e il fatto che nelle carceri del Chiapas continuino ad esserci, e ogni giorno ce ne siano di più, prigionieri politici, sono un chiaro segno dell’incongruenza del governo di Juan Sabines Guerrero, che se da una parte manifesta la volontà di cambiare la realtà dei popoli indigeni affrontando all’origine i loro problemi e preparando la base per la loro autodeterminazione, dall’altra si trova in piena offensiva contro qualsiasi manifestazione di partecipazione popolare, di dignità e lotta.

Molto poco sembra essere cambiata la politica statale dal 2006 nonostante ciò che afferma il governatore (come pubblicato da non molto sul periodico El Cuarto Poder): “Lo stato deve garantire il rispetto dei diritti umani a tutti i suoi abitanti, quelli nati qui, quelli che qui vivono, quelli che ci visitano o restano ad abitare per un periodo, senza badare al sesso, l’origine culturale, il credo o la nazionalità. Al contrario, governare solo per alcuni, per quelli di un unico partito, di un unica religione, di una sola nazionalità è una pratica discriminatoria e lesiva dei diritti umani”. Queste parole non hanno molto a che vedere con gli ultimi fatti accaduti nella costa del Chiapas, come a Bachajon o Mitziton.

Per questo chiediamo la liberazione immediata di tutti i detenuti, oltre alla piena regolarità del processo.

¡¡¡¡¡Libertad inmediata a los presos políticos de Bachajon y Mitziton!!!!

¡¡¡Libertad inmediata a todos los presos políticos en Chiapas!!!!

¡¡¡¡Cese a la represión del gobierno de Chiapas en contra de los compañeros de Mitziton y Bachajon!!!!

¡¡¡Respeto a la libre determinación de los pueblos y a la autonomía!!!!

¡¡¡¡ Cumplimiento de los acuerdos firmados por el Gobierno del Estado!!!!

¡¡¡¡Reubicación a los Paramilitares de Mitziton!!!

¡¡¡¡ Respeto a los pueblos de Bachajon!!!!

 

Per aderire all’appello manda la tua firma a espoirchiapas@hotmail.fr o pubblicala nei commenti a questo link http://gazcostachis.blogspot.com/2011/02/suma-tu-adhesion-numerosas.html

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liberati i tre avvocati del centro Digna Ochoa

Giovedì 3 marzo 2011

Intorno alle ore 22:20 abbiamo ricevuto la notizia della liberazione degli avvocati del Centro dei Diritti Umani Digna Ochoa. La Carovana del Consiglio Autonomo Regionale della Zona Costa del Chiapas, in presidio davanti al palazzo di governo dello stato del Chiapas, si è in parte diretta verso il carcere El Amate per accogliere i compagni liberati. Aspettiamo oer domani ulteriori informazioni al riguardo.

fonte: http://radiopozol.blogspot.com/2011/03/companeros-liberados.html

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denuncia dai detenuti di San Sebastian Bachajòn

La Jornada – Martedì 2 marzo 2011

I detenuti di San Sebastián Bachajón denunciano di essere stati ricattati dal governo del Chiapas

Hermann Bellinghausen

Dalla prigione di Playas de Catazajá, Chiapas, i nove contadini tzeltales dell’Altra Campagna di San Sebastián Bachajón dichiarano: “Ci tengono in prigione solo in cambio delle nostre terre”. Altri di loro si trovano nella prigione di Villa Crisol (municipio di Berriozábal).

Denunciano che alcuni rappresentanti del governo li hanno visitati ripetutamente nel penitenziario “proponendoci di accettare il dialogo riguardo al territorio su cui sorge il botteghino di accesso alle cascate di Agua Azul”, promettendo in cambio la loro liberazione, “ma conosciamo bene quanto siano ingannevoli le autorità, che vogliono impadronirsi delle risorse e delle terre dei nostri antenati”.

I rappresentanti governativi sostengono l’accordo con gli ejidatarios filogovernativi guidati da Francisco Guzmán Jiménez (Goyito) e Melchorio Pérez Moreno. I reclusi sostengono che “quelli del governo statale sono bugiardi, corrotti e traditori”, visto che ai dirigenti filogovernativi “vengono regalate auto nuove perché convincano la gente a consegnare i terreni che hanno ereditato dai loro genitori”. E ribadiscono: “Ci tengono rinchiusi ingiustamente. Il malgoverno sa che non abbiamo niente a che vedere con i fatti del 2 febbraio scorso”. Come si ricorderà, quel giorno perse la vita uno degli aggressori filogovernativi, vicino al botteghino degli ejidatarios dell’Altra Campagna, appena sgomberati a pistolettate.

Con una visita alla prigione di Catazajá, nove note organizzazioni civili che formano la Rete per la Pace in Chiapas, hanno appoggiato questi indigeni arrestati il 3 febbraio. La rete esprime il suo rifiuto “alla nuova ondata di violenza nello stato, ed in questo contesto di deterioramento guardiamo con preoccupazione la mancanza di volontà o capacità del governo di intervenire nei conflitti, evitando di affrontarli, oppure cercando ‘soluzioni’ a breve termine e, non riuscendoci, ricorrono alla repressione contro gruppi contrari alla sua politica”.

I recenti attacchi a San Sebastián e Mitzitón “sono un’espressione di questa conflittualità sociale, ed entrambi i conflitti sono cresciuti in violenza e polarizzazione”, ed una soluzione “dialogata e pacifica è sempre più urgente”. La rete sottolinea che, nel primo caso, “i gruppi a confronto avevano stabilito meccanismi di dialogo per costruire soluzioni che garantissero l’unità dell’ejido ed il controllo delle risorse naturali a beneficio dei suoi abitanti”. Questa via negoziata si è interrotta “con l’azione unilaterale, appoggiata dal governo dello stato, di occupare con la forza il botteghino di ingresso alle cascate, reprimere una delle parti nel conflitto e condizionare la liberazione dei detenuti all’accettazione delle condizioni imposte. Invece di privilegiare il dialogo, il governo è intervenuto con la repressione ed ha finito per gestire il conflitto prendendo il controllo della zona”.

Questo metodo “è già stato usato” dai governi di Ruiz Ferro ed Albores Guillén, nella zona Nord e negli Altos. “Il risultato di questa strategia è stato un alto numero di morti, sparizioni, migliaia di sfollati e la distruzione del tessuto sociale. Ripetere questo modo di agire è un grave errore in questi tempi di crescente violenza nel paese”, conclude la Rete per la Pace.

Da parte sua, una carovana di molte organizzazioni chiapaneches di donne, dopo aver visitato nei giorni scorsi i detenuti a Catazajá, ha dichiarato: “La guerra in Chiapas non si può nascondere con promesse né con la guerra contro il crimine organizzato. La violazione dell’autonomia delle comunità fa parte delle strategie attualmente rivolte contro la resistenza organizzata di San Sebastián, Mitzitón, Tila e Chicomuselo”. http://www.jornada.unam.mx/2011/03/02/index.php?section=politica&article=021n2pol

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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la guerra del narco

Intervista con la giornalista Anabel Hernandéz

I signori del narco

Nel libro Los señores del narco, Anabel Hernández racconta la storia recente del narcotraffico in Messico. La giornalista denuncia che l’attuale guerra contro il narco “è una guerra tra i cartelli nel narcotraffico nella quale il governo di Calderón ha preso partito per uno dei contendenti”.

 

Matteo Dean


Messico, DF. La cosiddetta “guerra al narcotraffico” lanciata dall’attuale governo federale messicano – guidato da Felipe Calderón Hinojosa – è una falsa guerra, perché in realtà “si tratta di una guerra tra cartelli del narcotraffico nella quale il governo di Calderón ha preso partito per uno dei contendenti, Joaquín Loera Guzmán, alias El Chapo, leader del Cartello di Sinaloa”.

 

Queste sono alcune delle opinioni che sostiene Anabel Hernández, giornalista messicana ed autrice del libro rivelazione di questi ultimi mesi nelle librerie del Messico, Los señores del narco (pubblicato da Grijalbo Mondadori, 2010, p. 496).

 

Il libro, pubblicato a dicembre 2010 e che in due mesi ha già venduto 50 mila copie, racconta la storia recente del narcotraffico in Messico, concentrando l’attenzione su alcuni dei protagonisti di questo fenomeno che “sta infettando tutto il Messico”. In questione, Anabel Hernández descrive il percorso criminale di Joaquín El Chapo Guzmán, dal suo precoce arresto da parte delle autorità del Guatemala (che lo consegnarono poi alle autorità messicane, nel 1993) – quando “era solo una ‘leva’ nella gerarchia dell’allora Cartello di Juárez” – fino ad oggi, quando il leader del Cartello di Sinaloa è considerato il capo dei capi, inserito anche negli elenchi esclusivi di Forbes come uno degli uomini più ricchi del pianeta.

 

http://desinformemonos.org/2011/03/los-senores-del-narco/

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