La lava del Messico
a cura di Gianni Proiettis
28 marzo 2011
Wikileaks comincia a fare le prime vittime nella diplomazia. Dopo il ritiro di Gene Cretz, ambasciatore Usa in Libia, che si dileggiava a descrivere le bionde e formose infermiere di Gheddafi, è la volta di Carlos Pascual, ambasciatore gringo – anche se nato a Cuba –a Città del Messico che ha presentato il 19 marzo le dimissioni “per motivi personali”.
In realtà, il ritiro di Pascual è la logica conclusione di una serie di incidenti che hanno messo a nudo l’inarrestabile interventismo statunitense a sud del Rio Bravo – iniziato con il Piano Mérida di lotta al narcotraffico e arrivato recentemente a sopravvoli di droni a sud della frontiera – così come il simmetrico servilismo del governo messicano, che è arrivato a chiedere aiuto a Washington per rendere governabile Ciudad Juárez.
La notizia che ha innescato una dinamica distruttiva nei rapporti fra Messico e Stati uniti è stata la venuta a galla dell’operazione “Fast & Furious”, una notizia che non smette di sollevare onde: negli ultimi quindici mesi le autorità statunitensi, attraverso l’Atf (Alcohol, Tobacco and Firearms, l’ufficio federale incaricato del controllo delle armi da fuoco), hanno rifornito di armi da guerra i cartelli dei narcos messicani.
La rivelazione, fatta in un programma di Cbs News lo stesso giorno (3 marzo) in cui il presidente Calderón era in visita ufficiale a Washington, ha già provocato un terremoto negli ambienti politici dei due paesi.
Non fosse stato per la morte di due agenti gringos crivellati da quelle stesse armi – il primo, Brian Terry, era un agente della Border Patrol ucciso in uno scontro a fuoco a dicembre in Arizona, l’altro, Jaime Zapata, un agente dell’Ice (Immigration and Customs Enforcement) trucidato da una banda armata a metà febbraio nel corso di una missione undercover in Messico – dell’operazione Fast & Furious non se ne sarebbe saputo nulla. E’ stato uno degli agenti che vi partecipavano, il 39enne John Dodson, con una grave crisi di coscienza e ora con una gran paura di perdere il posto, a fungere da gola profonda.
Nel programma della Cbs, John Dodson ha vuotato il sacco: l’operazione Fast & Furious, che era stata approvata dal dipartimento di Giustizia, prevedeva che, contrabbandando armi all’interno del Messico e seguendone il percorso, si sarebbe arrivati agli ultimi destinatari, sgominando così intere gang di criminali. In realtà, l’Atf non aveva mai effettuato alcun arresto di rilievo – solo ora, a scandalo esploso, sono stati resi noti una ventina di arresti, ma di semplici “straw buyers”, trafficanti minori e prestanomi – e aveva finito per mettere in mano alla delinquenza organizzata un arsenale sufficiente per un piccolo esercito. Più di duemila armi di grosso calibro, dai classici kalashnikov ai famigerati Barrett 50 prediletti dai narcos, i mitragliatori con mira telescopica che sfondano le auto blindate (e, secondo un marine dimostratore in Youtube, “se ben usati, possono segare in due un uomo a duemila metri”).
Il fatto che quell’armamento cominciasse a seminare vittime fra i loro colleghi ha spinto vari agenti che partecipavano all’operazione, fra cui lo stesso Dodson, a manifestare le loro inquietudini ai propri superiori. Che, a quanto pare, li avrebbero tranquillizzati dicendo: “Ragazzi, se si vuole fare un’omelette, bisogna per forza rompere le uova”. Significa che una certa dose di illegalità è necessaria e tollerabile, se si vuole imporre la legge?
Sia come sia, gli agenti “ribelli” hanno deciso di portare alla luce quella strana operazione e hanno richiamato l’interesse dei media dediti al giornalismo investigativo – primo fra tutti www.publicintegrity.org -, della Cbs e finalmente della commissione giustizia del Senato, presieduta dal repubblicano Charles Grassley, che ha aperto subito un’inchiesta.
In questi giorni, come bombe a grappolo, si sono ascoltate ripetute smentite da vari organi del governo Usa: nessuno ne sapeva un piffero dell’operazione Fast & Furious. Né Janet Napolitano, che pure dovrebbe vegliare sulla sicurezza interna del paese, né Hillary Clinton, che comunque ne ha approfittato per lamentare la violenza a sud del Rio Bravo e chiedere un rafforzamento della frontiera Messico-Guatemala, magari con l’aiuto statunitense. Anche il procuratore generale Eric Holder ha considerato “inaccettabile” un’operazione che ha fatto entrare illegalmente un armamento letale in Messico lasciandolo nelle mani della delinquenza organizzata.
A chi resterà in mano il cerino? Ai dirigenti dell’Atf che si sono inventati l’operazione, all’ufficio del dipartimento di Giustizia che l’ha autorizzata, a qualche funzionario minore che ci ha lucrato sopra? Perché c’è anche da considerare il giro d’affari milionario che sta sotto l’operazione, tanto che non è chiaro – ma dovrebbe uscir fuori – se si tratta di un business travestito da operazione di polizia o viceversa.
Per ora, a più di tre settimane dalle rivelazioni sul caso e con due commissioni d’inchiesta ancora al lavoro nei due paesi, la palla non smette di rimbalzare. Obama, il 26 marzo, ha dichiarato che è normale che i messicani non ne sapessero niente, visto che lui stesso era stato tenuto all’oscuro dell’operazione. Ma il dipartimento di Giustizia, secondo i propri funzionari, l’aveva autorizzata “dai suoi massimi livelli”.
Quello che difficilmente si saprà, a meno di un miracolo futuro di San Wikileaks, è se queste operazioni – Fast & Furious, secondo lo stesso John Dodson, sarebbe solo la punta di un iceberg e neanche conclusa – rispondono a una strategia segreta diretta a destabilizzare il vicino del sud, lo storico “cortile posteriore”, per estendervi il controllo e aumentare le ingerenze.
Sebbene con ritmi più latini, il pandemonio è scoppiato anche in Messico, dove si sente puzza di sovranità incenerita. Davanti a un governo che dice di non saperne assolutamente niente di questo “Rápido y Furioso”, Camera e Senato stanno reclamando spiegazioni e avviando inchieste su un episodio considerato gravissimo e suscettibile di mettere in questione i rapporti fra i due paesi. Il Senato ha convocato urgentemente il ministro degli esteri Patricia Espinosa e l’ambasciatore messicano a Washington Arturo Sarukhán perché informino sull’argomento.
Le relazioni fra il Messico e gli Stati uniti, già in crisi da prima, hanno toccato fondo con l’esplosione del caso Fast & Furious, che potrebbe rivelarsi tanto dirompente come un nuovo scandalo Iran-contras. La recente visita di Calderón a Washington, che ha segnato il quinto incontro fra lui e Obama, si è centrata soprattutto sulla fallita guerra al narcotraffico, che ha aumentato l’ingovernabilità in Messico e rischia di contagiare con la crescente violenza il potente vicino del nord. Ora, le rivelazioni di Fast & Furious gettano una luce schizofrenica sulla lotta al narcotraffico imposta dall’amministrazione Obama e aprono interrogativi inquietanti.
Fast & Furious, il serial cinematografico
A Washington, fino a una settimana fa, mentre Calderón si lamentava dell’ambasciatore statunitense in Messico Carlos Pascual – che lo ha dipinto come un presidente debole e incompetente nei cablo di Wikileaks – ma lo faceva allo sportello sbagliato (in interviste ai giornali, anziché per i canali ufficiali), il governo Usa aveva riconfermato la sua fiducia incondizionata al diplomatico, che non è solo un esperto in “stati falliti”, quindi molto ben collocato sullo scacchiere, ma stava anche ottenendo succosi contratti con Pemex, l’ente petrolifero di stato, a beneficio delle compagnie statunitensi e in spregio alla Costituzione messicana.
Poi improvvisamente, lunedì scorso, ha presentato le dimissioni, riscuotendo il pieno apprezzamento di Obama e della Clinton, che lamentano il suo ritiro. Per Felipe Calderón, dicono gli opinionisti messicani, la caduta del proconsole Carlos Pascual, in carica dall’agosto 2009, è una vittoria di Pirro, che i gringos gli faranno pagare cara.
Nel gossip di Città del Messico faceva rumore la relazione dell’ambasciatore con Gaby Rojas, figlia del capogruppo parlamentare del Pri, il dinosauro che vuole tornare al potere.
ANCHE I GRINGOS PIANGONO
Senza troppo rumore, giovedì 10 marzo nella cittadina di Columbus, in New Mexico alla fontiera con Chihuahua, agenti federali hanno arrestato il sindaco, il capo della polizia e altri 11 funzionari pubblici della località di confine accusandoli di traffico di armi e droga. Gli arresti sono frutto di un’indagine realizzata congiuntamente dalla Dea (Drug Enforcement Administration), l’Atf (Alcohol, Tobacco and Firearms Department) e l’Ice (Immigration and Customs Enforcement) e confermano i sospetti di una crescente corruzione fra i funzionari della zona di frontiera.
Secondo un portavoce del Fbi citato dall’agenzia Notimex, i narcotrafficanti hanno aumentato le ricompense agli agenti e ai funzionari per ottenerne la collaborazione. “Esiste una tremenda tentazione, per qualcuno che è meno onesto, a lavorare con i delinquenti. Chi lavora sulla frontiera può farsi vari anni di stipendio in un paio di notti.”
Due mesi fa è entrata in vigore una nuova legge che obbliga tutti gli aspiranti ad entrare in un corpo di polizia di frontiera a sottomettersi a un test con la macchina della verità.
Gli arresti di Columbus sono stati eseguiti un giorno dopo la commemorazione (non festiva) di un evento storico localmente rilevante: una scorribanda oltreconfine, con relativo saccheggio della cittadina, perpetrata da Pancho Villa e le sue truppe il 9 marzo del 1916. Curiosamente, il motivo dell’incursione era una rappresaglia contro un mercante d’armi che aveva truffato il generale Villa vendendogli munizioni inservibili.