La lettera completa, anche in formato .pdf alla pagina:
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Ultima parte dello scambio espistolare tra il Subcomandante Marcos e Luis Villoro:
III.- NIENTE DA FARE?
A chi trae le sue meschine somme e sottrazioni elettorali da questo conteggio mortale, ricordiamo che:
17 anni fa, il 12 gennaio 1994, una gigantesca mobilitazione cittadina (attenzione: senza capi, comandi centrali, leader o dirigenti) qui fermò la guerra. Di fronte all’orrore, la distruzione e le morti, 17 anni fa la reazione fu quasi immediata, contundente, efficace.
Ora è lo shock, l’avarizia, l’intolleranza, la meschinità che lesina appoggi e convoca all’immobilismo… e all’inefficienza.
La lodevole iniziativa di un gruppo di lavoratori della cultura (“NON PIU’ SANGUE”) è stata screditata fin dall’inizio per non “essersi piegata” ad un progetto elettorale, per non aver rispettato il mandato di aspettare il 2012.
Ora che hanno la guerra nelle loro città, per le strade, nelle proprie case, che cosa hanno fatto? Dico, oltre a “piegarsi” davanti a chi ha “il progetto migliore”.
Chiedere alla gente di aspettare il 2012? Che allora sì bisogna tornare a votare per il meno peggio perché allora si rispetterà il voto?
Se si contano più di 34 mila morti in 4 anni, sono oltre 8 mila morti all’anno. Cioè, bisogna aspettare altri 16 mila morti per fare qualcosa?
Perché si metterà al peggio. Se gli attuali candidati alle elezioni presidenziali del 2012 (Enrique Peña Nieto e Marcelo Ebrard) governano le entità con maggior numero di cittadini, non c’è d’aspettarsi che lì aumenterà la “guerra contro la criminalità organizzata” con la sua scia di “danni collaterali”?
Che cosa faranno? Niente. Proseguiranno sulla stessa strada dell’intolleranza e della demonizzazione di quattro anni fa, quando nel 2006 tutto quello che non era a favore di López Obrador era accusato di fare gli interessi della destra. Quell@ che allora ci attaccarono e calunniarono, ora seguono la stessa strada nei confronti di altri movimenti, organizzazioni, proteste, mobilitazioni.
Perché la presunta grande organizzazione nazionale che si prepara perché nelle prossime elezioni federali vinca un progetto alternativo di nazione, non fa qualcosa adesso? Dico, se pensano di poter mobilitare milioni di messicani affinché votino per qualcuno, perché non mobilitarli per fermare la guerra e il paese sopravviva? O è un calcolo meschino e vile? Che il conto dei morti e delle distruzione sottragga punti al rivale e ne aggiunga al favorito?
Oggi, in mezzo a questa guerra, il pensiero critico viene di nuovo rimandato. In primo luogo: il 2012 e le risposte alle domande sui “galletti”, nuovi o riciclati, per quel futuro che da oggi si sgretola. Tutto deve essere subordinato a questo calendario ed ai suoi passaggi: prima, le elezioni locali in Guerrero, Bassa California Sud, Hidalgo, Nayarit, Coahuila, Stato del Messico.
E mentre tutto precipita, ci dicono che la cosa importante è analizzare i risultati elettorali, le tendenze, le possibilità. Invitano a resistere fino al momento di tracciare il segno sulla scheda elettorale, e poi di aspettare che tutto si sistemi e si torni ad innalzare il fragile castello di carta della classe politica messicana.
Ricordano che loro si burlavano ed attaccavano chi dal 2005 invitava la gente ad organizzarsi secondo le proprie esigenze, storia, identità ed aspirazioni e non scommettere su qualcuno là in alto che risolvesse tutto?
Ci siamo sbagliati noi o loro?
Chi nelle principali città osa dire che può uscire tranquillo se non all’alba, almeno al tramonto?
Chi fa suo quel “stiamo vincendo” del governo federale e guarda con rispetto, e non con paura, soldati, marinai e poliziotti?
Chi sono quelli che adesso si svegliano senza sapere se saranno vivi, sani o liberi al termine della giornata che comincia?
Chi non riesce ad offrire alla gente una via d’uscita, un’alternativa, che non sia aspettare le prossime elezioni?
Chi non riesce a lanciare un’iniziativa che davvero attecchisca localmente, non diciamo a livello nazionale?
Chi è rimasto solo?
Perché alla fine, chi rimarrà sarà chi resisterà; chi non si sarà venduto; chi non si sarà arreso; chi non avrà tentennato; chi avrà compreso che le soluzioni non vengono dall’alto, ma si costruiscono in basso; chi non avrà scommesso né scommette sulle illusioni che vende una classe politica vecchia che appesta come un cadavere; chi non avrà seguito il calendario di chi sta in alto né adeguato la sua geografia a quel calendario trasformando un movimento sociale in una lista di numeri di certificati elettorali; chi non sarà rimasto immobile di fronte alla guerra, aspettando il nuovo spettacolo di giochi di prestigio della classe politica nel circo elettorale, ma hanno costruito un’alternativa sociale, non individuale, di libertà, giustizia, lavoro e pace.
IV.- L’ETICA E LA NOTRA ALTRA GUERRA.
Prima abbiamo detto che la guerra è inerente al capitalismo e che la lotto per la pace è anticapitalista.
Lei, Don Luis, prima ha detto anche che “la moralità sociale costituisce solo un primo livello, precritico, dell’etica. L’etica critica incomincia quando l’individuo si allontana dalle forme di moralità esistenti e si pone domande sulla validità delle sue regole e comportamenti. Si può rendere conto che la moralità sociale non obbedisce alle virtù che proclama”.
È possibile portare l’Etica nella guerra? È possibile farla irrompere nelle parate militari, tra i gradi militari, posti di blocco, operativi, combattimenti, morti? È possibile portarla a mettere in discussione la validità delle regole e dei comportamenti militari?
O l’ipotesi della sua possibilità non è altro che un esercizio di speculazione filosofica?
Perché l’inclusione di questo “altro” elemento nella guerra sarebbe forse possibile solo come paradosso. Includere l’etica come fattore determinante di un conflitto porterebbe come conseguenza ad un’ammissione radicale: il rivale sa che il risultato della sua “vittoria” sarà la sua sconfitta.
E non mi riferisco alla sconfitta come “distruzione” o “abbandono”, bensì alla negazione dell’esistenza come forza belligerante. E’ così, una forza fa una guerra che, se la vince, significherà la sua scomparsa come forza. E se la perde è lo stesso, ma nessuno fa una guerra per perderla (beh, Felipe Calderón Hinojosa sì).
E qui sta il paradosso della guerra zapatista: se perdiamo, vinciamo; e se vinciamo, vinciamo. La chiave sta nel fatto che la nostra è una guerra che non vuole distruggere il rivale nel senso classico.
È una guerra che cerca di annullare il terreno della sua realizzazione e le possibilità dei rivali (noi compresi).
È una guerra per smettere di essere quello che ora siamo e così essere quello che dobbiamo essere.
Questo è stato possibile perché riconosciamo l’altro, l’altra, l’altro che, in altre terre del Messico e del Mondo, e senza essere uguale a noi, soffre le stesse pene, sostiene resistenze simili, che lotta per un’identità multipla che non annulli, assoggetti, conquisti, e che anela ad un mondo senza eserciti.
17 anni fa, il 1 gennaio 1994, si rese visibile la guerra contro i popoli originari del Messico.
Guardando la geografia nazionale in questo calendario, noi ricordiamo:
Non eravamo noi, gli zapatisti, i violenti? Non ci accusarono di voler dividere il territorio nazionale? Non si disse che il nostro obiettivo era distruggere la pace sociale, minare le istituzioni, seminare il caos, promuovere il terrore e distruggere il benessere di una Nazione libera, indipendente e sovrana? Non si segnalò fino alla nausea che la nostra richiesta di riconoscimento dei diritti e della cultura indigeni minava l’ordine sociale?
17 anni fa, il 12 gennaio 1994, una mobilitazione civile, senza appartenenza politica definita, ci chiese di tentare la strada del dialogo per ottenere le nostre richieste.
Noi abbiamo obbedito.
Più e più volte, nonostante la guerra contro di noi, abbiamo insistito con iniziative pacifiche.
Per anni abbiamo resistito ad attacchi militari, ideologici ed economici, ed ora il silenzio su quello che sta succedendo qua.
Nelle condizioni più difficili non solo non ci siamo arresi, né ci siamo venduti, né abbiamo tentennato, ma abbiamo anche costruito migliori condizioni di vita nei nostri villaggi.
Al principio di questa missiva ho detto che la guerra è una vecchia conoscenza dei popoli originari, degli indigeni messicani.
Più di 500 anni dopo, più di 200 anni dopo, più di 100 anni dopo, ed ora con questo altro movimento che reclama la sua molteplice identità comune, diciamo:
Siamo qua.
Abbiamo un’identità.
Abbiamo il senso della comunità perché non abbiamo aspettato né sospirato che arrivassero dall’alto le soluzioni di cui necessitiamo e che meritiamo.
Perché non sottomettiamo il nostro cammino a chi guarda verso l’alto.
Perché, mantenendo l’indipendenza della nostra proposta, ci relazioniamo con equità con l’altro che, come noi, non solo resiste, ma ha costruito un’identità propria che gli dà appartenenza sociale, e che ora rappresenta anche l’unica solida opportunità di sopravvivenza al disastro.
Noi siamo pochi, la nostra geografia è limitata, non siamo nessuno.
Siamo popoli originari dispersi nella geografia e nel calendario più lontani.
Noi siamo un’altra cosa.
Siamo pochi e la nostra geografia è limitata.
Ma nel nostro calendario non comanda l’incertezza.
Noi solamente teniamo a noi stessi.
Forse è poco quello che abbiamo, ma non abbiamo paura.
Bene, Don Luis. La saluto e che la riflessione critica animi nuovi passi.
Dalle montagne del Sudest Messicano.
Subcomandante Insurgente Marcos.
Messico, Gennaio-Febbraio 2011
(Traduzione “Maribel” – Bergamo)